26 Gennaio 2006
Pietre dell'identità PostScriptum
Sulle ali di Perseo (II parte)
Tre lastrine di pietra speculare da Pompei. I sec. d. C.
Pietre trasparenti
In soccorso, mentre ci sentivamo di nuovo risucchiati in una morsa ispessita di pietra, nella ricerca di declinazioni di leggerezza senza più attingere alla vertigine seduttiva dei colori del mondo litologico, è sopraggiunta la scoperta di pietre che – sin dall’antichità – si offrono ad una sottrazione di peso molto particolare nel momento in cui “vanno incontro” e si lasciano attraversare dalla luce.
Ecco allora l’apparire – prim’ancora della diffusione del vetro – delle “pietre trasparenti”, pur escludendo dal nostro percorso investigativo il prezioso cristallo di rocca la cui trasparenza assoluta è apprezzata nell’antichità per la realizzazione di oggetti legati ad un’estetica del vivere lussuosamente. (1)
In ambito architettonico la prima pietra “alleggerita” dalla luce è la “pietra speculare” (la mica, minerale consistente prevalentemente di silicato d’alluminio lamellare) impiegata in forma di piccole lastrine all’interno di telai da finestra; di tale minerale trasparente ci parla – con dovizia di particolari – Plinio in Naturalis Historia:
“Queste pietre, certo, possono essere segate, ma la pietra speculare – perchè anch’essa e definita pietra – ha la caratteristica naturale di lasciarsi tagliare molto più facilmente in lastre sottili quanto si vuole. Un tempo la produceva solo la Spagna Citeriore, e nemmeno tutta, bensì solo una zona per un raggio di 100 miglia attorno alla città di Segobriga, ora si trova anche a Cipro, in Cappadocia e in Sicilia, poco fa si è scoperta anche in Africa. Comunque a tutte queste è da preferire quella di Spagna; le pietre di Cappadocia sono di dimensioni molto grandi, ma di colore scuro. Anche nella zona di Bologna, in Italia, se ne trovano piccole vene che sono incassate all’interno della selce, ma si riesce a distinguere caratteristiche naturali simili. In Spagna la pietra speculare si estrae da pozzi molto profondi, ma si trova anche sotto terra incassata nella roccia, per cui la si deve estrarre e tagliare; comunque per lo più è una pietra fossile che forma un blocco compatto in sè – fino ad ora non si sono mai trovati blocchi lunghi più di cinque piedi. Appare chiaro che si ha qui un liquido che, come il cristallo di rocca, è gelato e pietrificato da qualche esalazione all’interno della terra; in effetti quando gli animali cadono in questi pozzi, dopo un solo inverno le midolla nelle loro ossa si presentano con le stesse caratteristiche naturali di questa pietra. Occasionalmente si trovano anche pietre speculari nere, ma quella bianca ha la caratteristica eccezionale di sopportare perfettamente, nonostante la sua notoria tenerezza, l’azione del caldo e del freddo, e non si deteriora, sempre che non sia stata danneggiata – ma questa è una caratteristica anche dei blocchi di molti generi di pietre. Per la pietra speculare si è scoperto inoltre un altro uso: ricoprirne di scaglie e lamine la superficie del Circo Massimo per i ludi circensi, per ottenere un piacevolissimo candore.” (2)
È su quest’esperienza all’uso della “pietra speculare” (utilizzata come schermo di finestre, ma anche come rivestimento più esteso in forma di scaglie e lamine sull’esempio del Circo Massimo citato da Plinio) che s’innesta e si evolve, lungo la fase dell’Impero, il rapporto dialettico spazio-luce e con esso il tema dell’estetica delle trasparenze alimentato anche dalla progressiva evoluzione nella produzione di lastre di vetro.
Busto di Settimo Severo. Particolare in alabastro verde. (foto: Alfonso Acocella)
Ad una diversa accezione di trasparenza della pietra sembra riferirsi Plinio quando parla, sempre in Naturalis Historia, di pietra phengites (letteralmente “lucente”). Molto probabilmente si tratta di una varietà di alabastro o del marmo bianco di Cappadocia:
“Durante il principato di Nerone si trovò in Cappadocia una pietra della durezza del marmo, bianca e trasparente anche dalla parte in cui era striata da venature giallognole, che in base a tali caratteri fu chiamata phengites. Con questo materiale si costruì il Tempio della Fortuna, noto come tempio di Seiano ma in origine consacrato dal re Servio, inglobato all’interno della Domus Aurea. Grazie alla pietra, anche quando le porte erano chiuse c’era dentro ad esso un chiarore come del giorno, ma l’effetto era diverso da quello che si ha con la pietra speculare: sembrava che la luce non fosse trasmessa dall’esterno, ma come racchiusa all’interno. Giuba attesta che anche in Arabia si trova una pietra trasparente come il vetro, che viene utilizzata allo stesso modo che la pietra speculare.” (3)
Una trasparenza – quella del passo pliniano appena citato – da intendersi nei termini di traslucidità, ovvero di uno specifico grado di trasparenza dei corpi che lasciano filtrare una quantità rilevante di luce, ma non sufficiente a far distinguere il contorno degli oggetti al di là della materia che filtra i raggi luminosi. La luce attraversando il corpo litico (l’involucro architettonico nel caso evocato da Plinio) lo pervade in tutto il suo spessore trasferendo alla pietra due qualità peculiari.
La prima – attiva, riverberativa di energia – è legata al ruolo assunto dalla pietra che diventa “pietra luminosa”, una sorta di “lanterna iridiscente”, illusoria sorgente di luce diffusa nello spazio interno.
La seconda attiene alla valorizzazione della materia in sè – l’alabastro in questo caso specifico citato da Plinio – la quale, sotto l’azione della luce che la pervade, esplicita ed enfatizza il tessuto mineralogico costitutivo fatto di linee flessuose e di vortici, di entità areali nuvolate, di vene coloriche dai toni “alleggeriti” dalla stessa luce.
È l’affermarsi di una estetica della luminescenza legata al concetto dello “splendere attraverso” (diverso dallo “splendere in superficie” come nel caso dei marmi policromi “tirati a lustro” di cui abbiamo riferito nel precedente intervento) conseguenza della luce filtrante e dell’atmosfera magica, per certi versi fiabesca, che viene a crearsi; siamo – non dimentichiamolo, per stare all’esempio pliniano – in una temperie storica molto particolare dell’Impero, di fronte alla ricerca dell’effetto stupefacente, dell’asianesimo sfarzoso ed esuberante di stampo neroniano. È mistica – di accezione autocelebrativa e privata – della luce che s’invera nel corpo della materia intrudendosi, espandendosi, colorandosi.
L’ipotesi della “trasparenza visiva” (connessa alla “pietra speculare, prima, e al vetro in epoca imperiale, successivamente) si evolve così, sin dall’Antico, in parallelo ad una diversa concezione di “trasparenza opalescente e sensuale”, la quale gioca tutte le sue carte affabulative sulla zona di confine, sul limite tattile e visivo rappresentato dalla superficie litica “semitrasparente” intesa come tessuto fondante (e non dissipativo) dei valori peculiari dell’architettura.
Nell’architettura tardoromana – e poi romanica – l’impiego di lastre sottili di pietra nella redazione di schermi e specchiature di aperture è stata una soluzione frequentemente ricercata soprattutto in funzione di quella mistica della luce che gli edifici sacri hanno prevalentemente ricercato e che evolverà, poi, nelle grandi vetrate colorate gotiche.
Banca a Chemnitz (1997-2004) di Lluis Mateo con MAP Architects.
Dopo il moderno, in cui è possibile citare il Karntner Bar a Vienna (1908) di Adolf Loos, spostandosi verso il contemporaneo – in relazione anche alla disponibilità di tecnologie in grado di ridurre i blocchi di pietra in spessori sottili o ibridarli con supporti o pellicole rinforzanti – l’estetica della traslucenza dei materiali litici (in particolare di alabastri, onici e marmi chiari) è stata riproposta in varie opere architettoniche molto recenti: in esterno-interno, dalla Biblioteca di libri rari della Yale University (1960-1963) di Gordon Bunshaft alla Chiesa di San Pio a Maggen (1964-1966) di Fran Fueg, dall’edificio per appartamenti a Parigi (1995) di Marc Mimram, al Christ Pavillion ad Hannover (1999-2000) di Meinhart Von Gerkan, alla Sede della Deutsche Bundesbank a Chemnitz (1997-2004) di Lluis Mateo con MAP Architects; negli allestimenti d’interni, dalla Fondazione Mirò a Maiorca (1987-1993) di Rafael Moneo, all’Istituto del Mondo Arabo a Parigi (1981-1987) di Jean Nouvel, dalla Banca de Ahorros a Granada (1992-2001) di Alberto Campo Baeza, al Municipio di San Fernando de Henares (1999) di Sancho-Madridejos.
Banca a Chemnitz (1997-2004) di Lluis Mateo con MAP Architects.
fg159
Una leggerezza, questa delle pietre trasparenti dell’oggi, che deve moltissimo – come in passato – alla luce naturale posta ad attraversarle dall’esterno verso l’interno, ma che attinge in forma inedita anche nelle accresciute potenzialità del progetto del tutto contemporaneo della luce artificiale, capace quest’ultima – dall’interno – di staccare da terra la materia proiettandola verso insondabili leggerezze nei cieli bui notturni.
Alfonso Acocella, Davide Turrini
Leggi i commenti alla prima parte del post e partecipa al dibattito
Note
(1) Si vedano in proposito Erkinger Scwarzenberg, “Cristallo” pp. 61-69 e Francesca Dell’Acqua, “Le finestre invetriate nell’antichità romana” pp. 109-119, entrambi in Vitrum, Firenze, Giunti, 2004, pp. 359.
(2) La citazione è tratta dall’edizione einaudiana della Naturalis Historia (XXXVI, 160-162) con traduzione e note di Antonio Corso: Plinio, Storia naturale, Torino, Einaudi, 1988, vol. V, pp. 996.
(3) La citazione è tratta dall’edizione einaudiana della Naturalis Historia (XXXVI, 163) con traduzione e note di Antonio Corso: Plinio, Storia naturale, Torino, Einaudi, 1988, vol. V, pp. 996.