22 Gennaio 2006
Pietre dell'identità PostScriptum
Sulle ali di Perseo (I parte)
Il Perseo di Benvenuto Cellini.
Caro Alfonso,
chiedo venia se fino ad ora non ho partecipato al blog sull’architettura di pietra. Buona parte della mia reticenza era dovuta al fatto che il materiale, la pietra appunto, ha sempre occupato la mia mente dal punto di vista della durata, anzi meglio, la ritenevo sinonimo stesso di eternità (per la quale non nutro particolare simpatia…). Come sai i miei interessi sono sempre stati orientati verso il fuggevole, il temporaneo, l’incerto, il leggero, ciò che manifesta rarefazione e così via, esattamente l’opposto di quello che comunemente si pensa della pietra. Poi, come sempre accade quando approfondisci le questioni, quando superi alcune tappe, si disvelano confini che fino ad allora erano rimasti latenti, nascosti dal temporaneo disinteresse o dalla semplice neghittosità.
Sfogliando gli ultimi interventi del blog mi è balzato alla mente un fatto emblematico: anche questo materiale, al di là del retaggio che trascina con sè, è pur sempre un materiale da costruzione e, in fondo, è stato capace di aggiornarsi lungo tutta la storia dell’architettura. Perchè allora non leggerlo da questo punto di vista? Ogni materiale da costruzione contiene, in maniera diversificata, un certo grado di potenzialità intrinseca nei confronti dell’innovazione, dell’impiego per rappresentare la contemporaneità. Ritengo che l’architettura sia tale solo quando è capace di rappresentare il proprio tempo. Il nostro tempo, dominato dalla tecnica, dall’informazione, dalla comunicazione istantanea, dall’immagine, ecc. richiede materiali e strumenti effimeri, o quantomeno a durata limitata, perchè la nostra è anche l’epoca del cambiamento repentino, della fluidità, dell’instabilità. Probabilmente le nuove rappresentazioni architettoniche (leggi il fluidismo, il decostruttivismo o decostruzionismo, i media buildings) riportano proprio di questo stato di cose. Come può, allora, un materiale che pesa, che ha richiesto lunghissimi periodi per la sua formazione, che è duro (sicuramente di più del vapore del Blur Building…), che necessita di lavorazioni da “tuta blu”, competere con quelli che nascono da asettiche fabbriche automatiche, generati da processi chimicofisici in tempi definiti nemmeno tanto lunghi, che possono essere impiegati e/o formati più volte, laddove l’operatore indossa una “tuta bianca”? Queste e molte altre domande mi si sono avvicendate nella mente per cercare di cogliere la contemporaneità della pietra.
La risposta è arrivata quando ho letto nel tuo blog che qualcuno produce dei brise soleil con fogli di pietra. Tentativo di emulazione della torre Agbar di Barcellona? Semplice innovazione adattiva? Non importa quale sia stata la molla che ha fatto scaturire la soluzione. Ho visto talmente tante soluzioni imitative (persino fin troppo banali) effettuate proprio con questo materiale da comporre un repertorio di soluzioni a dir poco “originali” (le virgolette sono lì per graffiare un po’…). Non voglio, però, dare giudizi di merito, perchè conosco la fatica del lavoro di ricerca. So anche che molte soluzioni sono state messe in campo per vari motivi, dalla richiesta di un determinato mercato alla necessità di rimanere in un determinato mercato. Quindi ben venga ogni cambiamento, di qualunque tipo questo sia. Di fondo c’è sempre una giustificazione e nessuno è stato insignito del titolo di giudice supremo. Quindi, anche se qualcuno storce il naso di fronte al fatto che la comunicazione commerciale tenta di infilarsi nel mondo della produzione culturale (e spesso ci riesce…) è perchè evidentemente si sono avverate le condizioni perchè ciò accada. Significa, probabilmente, che vi è stato un mescolamento, un rimaneggiamento dei ruoli. Significa che i confini tra pensiero ideologico e pensiero pratico sono frastagliati al punto da coincidere. Significa che alcuni territori non occupati sono stati accaparrati da chi è arrivato per primo. Significa che la cultura ha bisogno di sporcarsi le mani per poter riprendere il possesso di quei territori che considera suoi. Insomma, ho la vaga impressione che se il mondo della produzione (e conseguentemente del commercio) tenta un approccio con il mondo della ricerca universitaria è perchè sa bene di trovare qualche interlocutore col quale instaurare rapporti proficui (per gli uni e per gli altri…). Da una parte ogni investimento sull’università produce sempre e comunque una ricaduta, perlomeno di immagine. Dall’altra parte, viste le magre risorse disponibili, sembra che siano state spalancate le porte ad ogni attività capace di rendere economicamente. E l’ideologia? L’orgoglio? Il decoro? E via di questo passo? Pecunia non olet, per cui sembra che i fini giustifichino sempre i mezzi. È disprezzabile questa posizione? Personalmente credo di no. In fondo se questa è una democrazia, seppur imposta e imponibile con le armi, sono ammesse tutte le furbizie, specie in un gioco senza regole.
Tornando alla pietra mi sono reso conto che è un materiale assolutamente attuale, purchè non la si voglia trattare come puro e semplice materiale decorativo, oppure surrogato di altri. In fondo ha una notevole dignità, forse è proprio il materiale che porta con sè un livello di dignità maggiore di tutti gli altri. Quindi auspico che le soluzioni che lo vedono impiegato nelle recenti architetture esaltino le sue qualità di leggerezza, di immagine temporanea, di attualità.
Un caro saluto Pietro Zennaro
Il Perseo di Benvenuto Cellini.
Caro Pietro,
molti fili e nodi problematici sono intrecciati nel tessuto concettuale delle riflessioni che ci consegni attraverso un file digitale.
Fra i tanti percorsi possibili di interlocuzione quello che consente – oltre che una risposta (sicuramente parziale) alle tue osservazioni ed interrogazioni – di precisare e, anche, di sviluppare in qualche modo idee in nuce è il tema della leggerezza (valore, qualità, condizione peculiare della contemporaneità) apparentemente molto distante da ciò che la materia litica sembra portare con sè in dote od anche semplicemente evocare.
Vorremmo aprire la questione con una citazione “ambivalente” di Italo Calvino:
“L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati (…). Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. (…) Ma il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario.” (1)
C’interessa indagare il tema della leggerezza attraverso due “fuochi concettuali” inscrivibili nel lavoro teorico che stiamo svolgendo da qualche tempo legati all’obiettivo di riconoscimento, riabilitazione e attualizzazione dell’architettura di pietra.
Il primo è legato alla “leggerezza fisica” della pietra quale accezione d’impiego – in senso disciplinare, architettonico – registrabile nel reale storico o contemporaneo, capace di far “librare”, “volteggiare” la materia affrancandola dal peso, dalla corposità strutturale e dalla forza di gravità che, più generalmente, la riconduce e la salda al terreno. Ma anche alla leggerezza – indicibile, al momento – associabile alle innovazioni a venire capaci di “smuovere”, “evolvere” la pietra all’interno di un tessuto intellettuale privo di vincoli e di preconcetti, in uno spazio del “possibile” dove si può tentare di rovesciare la pesantezza della materia nel suo contrario, per dirla con Calvino.
Il secondo fuoco tematico si lega invece, metaforicamente, alla “leggerezza comunicativa” della pietra, posta in associazione rispetto alle altre due caratteristiche peculiari del nostro presente globalizzato e della nuova economia “priva di peso”: la rapidità e la visibilità. Insieme – leggerezza, rapidità visibilità comunicativa – possono far viaggiare, con grande velocità e pervasività, la materia che diventa idea privata del suo peso. L’immagine leggera che anticipa la materia pesante.
Campionario di pietre colorate. (Reale Laboratorio delle pietre dure di Napoli)
Pietre “coloriche” (o della “leggerezza dei colori litici”)
Se il retaggio più diffuso e convenzionale che la pietra porta con sè è quello che la vede legata al tema della massa e dell’indistruttibilità (a cui viene associata la lunga durata, se non l’eternità) è bene precisare come tale eredità non ne chiude completamente in un circolo i modi di impiego, la sua stessa fortuna nella lunghissima storia applicativa all’interno della storia dell’architettura.
Alla ciclopicità litica del mondo egizio e alla perfezione della costruzione stereotomica dell’architettura marmorizzata greca, segue con i Romani l’inebriante leggerezza dell’illusionismo policromatico dell’opus sectile e dei mosaici parietali. Nella Roma imperiale i materiali litici si assottigliano, si distendono in forma di “membrane”, di superfici di qualche centimetro di spessore (non infrequentemente anche al di sotto di un solo centimetro); la pietra smette di ostentare massività e portanza strutturale per parlare invece di valori ottici, di illusività, soprattutto attraverso la forza seduttiva dei colori.
L’uso inedito delle pietre da parte di Romani avviene sia nei rivestimenti in opus sectile sia nei mosaici parietali posti entrambi ad alimentare – come avverte Sergio Bettini – una concezione rivoluzionaria dello spazio architettonico d’interni che diventa scenografico, monumentale, “smaterializzato”:
“Ma è la decorazione a mosaico in se stessa, con la sua particolare sintassi anche figurativa, che non può originarsi dalla tradizione greca, anzi presuppone, necessariamente, un completo rivolgimento di tutta la concezione greca dello spazio e della forma. Poichè la decorazione musiva, s’è visto, si determina come ultimo e più maturo e coerente risultato della trasformazione delle pareti in superfici di valore cromatico; e tale ultima trasformazione può avvenire soltanto nell’ambito di una tradizione architettonica, la quale si sia distaccata dal sistema trilitico greco, o da quello peristilio ellenistico, ed abbia trasferito, appunto, sulla parete integralmente chiusa anche in alto per mezzo della cupola, l’intera responsabilità della definizione degli spazi interni. Cioè la tradizione romana. La quale, quando riduce cotesta parete, per rispondere al nuovo senso dello spazio, ad un illusivo diaframma di colore, non soltanto è condotta a ricercare nelle rivestiture marmoree e nelle decorazioni a mosaico un più ricco effetto cromatico, ma poichè tale ricerca risponde al bisogno di dare alla parete un significato di spazialità immateriale, porta necessariamente a ridurre le stesse “figure” superfici cromatiche senza spessore, con l’identico procedimento che, s’è visto, trasforma gli antichi capitelli plastici in preziose macchie cromatiche fuse nell’illimitato spazio. È dunque un nuovo linguaggio, antitetico a quello plastico dell’antica Grecia che si viene maturando a Roma, ed è questo, che viene accolto da Bisanzio.” (2)
Per i Romani – all’interno dello sconfinato universo delle pietre – i graniti, i porfidi, i marmi, le tante altre rocce lucidabili, gli alabastri, gli onici, hanno rappresentato “pietre particolari” capaci di declinare (oltre l’atto costruttivo) valenze squisitamente illusive, inebrianti in base al loro spiccato valore determinato dal disegno, dal colore, dalla lucentezza del “polimento” o (come preciseremo in un prossimo post) dalla magia della traslucenza.
Le pietre, a partire dall’esperienza romana, si sono prestate con continuità e generosità alla tematica del colore per le infinite particolarità ed assetti costitutivi di cui sono testimoni. Dell’incantesimo seduttivo dei colori, di questa “essenza non formale” (o, forse, “forma stessa” – della materia litica) hanno parlato in molti.
Da sempre – nelle affermazioni dei naturalisti, degli scrittori, degli esteti, degli storirici dell’arte – le pietre sono state collegate ai concetti di admiratio e di varietas. Il concetto di admiratio riteniamo sia da legarsi al mondo litico in generale: alle sue pietre particolarissime e rare, a quelle impiegate nelle fabbriche architettoniche con i loro svariatissimi colori che ne fissano, in una leggiadra “seconda natura”, la loro presenza.
Horti Lamiani: alabastri d’età imperiale. Palazzo dei Conservatori a Roma
Un omaggio ai piaceri intensi ed istantanei che le pietre sanno suscitare; pietre disegnate da grandi macchie e inclusioni minerali; onici flessuosi e traslucidi; graniti “puntinati” saturi ed intensi; marmi candidi, aurei, lividi, purpurei, ultramarini, attraversati da venature che portano altra linfa colorica “arricchente”.
Si apprezzano, allora, le pietre e i marmi colorati in sè, assunti come materia_superficie.
Ma in tutti questi casi il medium affabulativo del colore della materia – ci chiediamo – è inscrivibile nella categoria del pesante o del leggero ? Il colore sostanzia o contraddice il peso che vogliamo ad ogni costo leggere nella pietra ?
Le categorie di fulgor e splendor sono state sempre connesse alle pietre preziose, alle gemme che brillano di una luce che sembra essere prodotta da esse stesse; ma tali categorie possono indirettamente essere estese anche al mondo delle superfici litiche rilucenti di colore dell’architettura. Nelle redazioni pavimentali, nei rivestimenti parietali, nei diaframmi litici opalescenti, il “polimento” delle superfici ha sempre puntato ad esaltare, ad intensificare i caratteri brillanti, lo “scintillio”, la luminosità dei colori incapsulati nella materia in attesa di una nascita. Solo allora i colori dell’universo litologico diventano vivi e attivi; la lucentezza che li porta all’evidenza massima – con i relativi effetti in forma di “specchiature”, di “vortici”, di “riverberi” – parla di bidimensionalità, conferisce una vita autonoma e una “leggerezza” seduttiva alle superfici.
Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe (foto: Alessandra Acocella)
A distanza di circa duemila anni dall’introduzione delle incrostazioni marmorizzate e dei mosaici – sotto una diversa sintassi architettonica – Mies van der Rohe, nel Padiglione di Barcellona suo massimo capolavoro della stagione europea, plasma uno spazio cinetico che sembra essere perfettamente interpretabile attraverso le categorie (i valori) di Pietro Zennaro: fuggevole, temporaneo, incerto, leggero, rarefatto. A formalizzarlo vi sono setti verticali e superfici orizzontali litiche: di marmo verde greco, di onice, di travertino.
Argomentiamo, allora, che la leggerezza è qualità (valore) in disponibilità della pietra, riguardata – in questa prima parte del nostro intervento alla discussione – attraverso il tema del colore. E questo al passato e al contemporaneo.
Alfonso Acocella
(1) Italo Calvino, “Leggerezza” p. 8, in Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993 (Ed. or. 1988), pp. 141
(2) Sergio Bettini, “L’architettura bizantina” p. 55 in Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Dedalo, 1990 (ed. or. 1978), pp. 149.
22 Gennaio 2006, 23:42
damiano
Lo dovevo immaginare: è tutta colpa dei Romani!
Chi ha trasformato la materia in cromatismo, l’irripetibilità in ostentazione, la rarità in compiacimento, sono loro, hanno cominciato i Romani.
Mi prudono i polpastrelli ma mi trattengo, in attesa della seconda parte del dell’intervento….