13 Dicembre 2005
Pietre Artificiali Pietre dell'identità
Alle origini dell’opus caementicium
La citta magnogreca di Velia. Muro ad emplecton (foto A. Acocella)
Muri ad emplecton*
L’architettura dell’ellenismo, dalla fine del IV sec. a.C., conserva e ripropone i materiali e i modi costruttivi tipicamente greci sia pur con una propensione ad un loro uso meno convenzionale, adattandoli alle diverse condizioni e risorse locali, vista l’ulteriore estensione geografica assunta dalla koinè ellenizzante dopo la morte di Alessandro Magno. Ciò che, invece, rappresenta un elemento di sostanziale innovazione è l’allargamento delle soluzioni tecniche in uso sia attraverso inediti impieghi dei materiali già sperimentati, che mediante l’introduzione di nuovi materiali e procedimenti costruttivi.
La pietra e il marmo rimangono i “materiali nobili” per eccellenza degli edifici ellenistici più importanti, anche se legno ed argilla cruda (quest’ultima, a volte, “amorfa” da predisporre entro casseformi, altre “formata” in mattoni regolari parallepipedi) costituiranno le materie maggiormente impiegate nell’edilizia minore; il loro uso si estenderà addirittura all’architettura maggiore visto il notevole aumento del numero e della varietà delle tipologie urbane a cui l’architettura della tarda grecità dedicherà particolare cura progettuale e costruttiva senza poter assolvere a tali allargati programmi realizzativi sempre con strutture di pietra. Ci riferiamo, in particolare, all’importanza assunta dagli edifici civili quali ginnasi, palestre, strutture amministrative e di commercio, stoà.
Benchè ritenute molto importanti all’interno della società ellenistica è realisticamente impensabile poter trattare tutte queste “nuove” tipologie al pari dell’architettura monumentale sacra realizzandole in pietra; modi costruttivi spesso compositi (fatti di legno, di muri di argilla intonacati con limitati elementi di pietra) alimenteranno la maggior parte dei programmi ellenistici. La pietra continuerà, in particolare, a svolgere un ruolo significativo nei colonnati di stoà, peristili, agorà e nell’architettura più autenticamente monumentale
Anche sotto l’ellenismo il materiale lapideo viene prevalentemente lavorato; abbandonato l’uso di pietre grezze (che nelle epoche precedenti avevano trovano un largo impiego, soprattutto nelle opere rustiche, in combinazione con l’argilla che ne avvolge i volumi informi dando vita a murature regolarizzate nella loro geometria di elevazione) il materiale litoide viene normalmente “sbozzato” con livelli maggiori o minori di “finezza”; tale passione e consuetudine all’impiego della pietra si registra soprattutto nelle aree del Mediterraneo orientale.
I massi grossolanamente riconfigurati continuano ad essere impiegati, attraverso l’opera poligonale, solo in generi architettonici speciali quali fortificazioni, terrazze, sostruzioni. Blocchi stereotomici perfettamente pareggiati di calcare duro, o addirittura di marmo, invece, permangono – attraverso le tipiche modalità e le apparecchiature dell’opera quadrata – ad alimentare i programmi “artistici” di alta rappresentatività. La posa a secco dei conci rimane il sistema prevalente dell’architettura fine e monumentale; quando le condizioni di esercizio statico lo richiedono, ad integrazione della perfetta lavorazione dei blocchi lapidei, vengono inserite, fra concio e concio, grappe orizzontali o tasselli verticali di ferrofissati con piombo.
“Le commessure sono precise anche in epoca ellenistica; l’anathyrosis, cioè il leggero ribassamento delle superfici di congiunzione, viene realizzata regolarmente. In generale la lavorazione artigianale delle pietre da costruzione continua a mostrare un livello assai alto; forse è un pò venuta meno solo la passione per il dettaglio degli artigiani delle epoche precedenti. L’esecuzione imprecisa e davvero disordinata diventa comunque tipica degli ambienti culturali periferici, dove conta soltanto che l’impressione generale “vada”. In Italia, per esempio, vengono accettate a cuor leggero anche sensibili differenze di misure tra interassi ordinati di colonne e simili, una cosa del tutto impensabile nell’ambito greco più stretto.” (1)
All’interno della tradizione costruttiva ellenica bisogna evidenziare a questo punto della nostra trattazione lo sviluppo di un procedimento composito dell’opera muraria, impiegato in Grecia sin dall’epoca arcaica e nota col nome di emplecton (èmplekton), che sta ad individuare una tipologia speciale di “struttura a riempimento”.
Fra due pareti formate da blocchi regolari di pietra che fungono da rivestimento a forte spessore, si predispone un riempimento di materiali meno pregiati (elementi lapidei di scarto, terra, argilla, ma anche pietrisco e malta, soprattutto nel tardo ellenismo); tale mistura di materiali eterogenei individua il vero emplecton che, per estensione terminologica, designerà attraverso la trattatistica ellenistica il tipo specifico di muratura mista. La si ritrova al Pireo, a Pergamo, a Mileto.
Di questa particolare tipologia muraria ci sono state restituite, dai vari siti archeologici, due varianti: l’emplecton semplice e quello a diatoni (díatonoi); la seconda risulta maggiormente resistente in quanto le pareti murarie di pietra sono concatenate reciprocamente mediante blocchi lapidei trasversali, della lunghezza uguale all’intero spessore del muro; tale soluzione di collegamento è documentata sin dall’epoca classica.
Perfette e solide mura ad emplecton sono rinvenibili anche sul suolo italico ellenizzato all’interno delle colonie greche: è il caso di Velia, città fondata dai Focei poco a sud di Poseidonia, dove poderose mura urbiche circondano il quartiere mercantile proteggendolo dal mare.
Sempre a Velia si può registrare, nei decenni a cavallo fra il IV e i III sec. a.C., una ulteriore e significativa innovazione tecnica a cui la ricerca archeologica ha prestato sinora scarsa attenzione. All’interno dei due possenti bastioni in blocchi litici montati a secco posti a proteggere in forma di antemurali la famosa Porta Rosa (che ostenta, in bella stereotomia, il primo arco di tradizione greca a sud di Roma) si rileva un grande riempimento formato da un misto di frammenti di pietra e di “terra”; ciò che però sembra distinguere tale aggregato è la sua particolare consistenza che si presenta assai compatta al punto da rendere coesi e “cementati” fra loro i vari elementi costitutivi. L’ipotesi è che si tratti di calce spenta la quale, utilizzata insieme ad inerti fini (sabbia), abbia dato vita, in forma pionieristica, ad una malta (o comunque ad una miscela simile a quella che poi sarà la malta campana e romana) utilizzata – sempre a Velia, ancora una volta, con caratteri di innovazione – anche come legante nei primi muri di mattoni in laterizio cotto che la storia costruttiva italica ci ha restituito.
Ci siamo soffermati abbastanza sulle innovazioni tecniche riscontrabili nella città fondata dai Focei poichè, nell’insieme, ci avvertono che una tradizione dell’opera muraria – quella della grecità arcaica e classica – ha codificato ampiamente il proprio statuto costruttivo mentre un’altra, su apporti e stimoli ellenistici, si sta per dischiudere nell’area campana trasferendone, poi, la linea avanzata della sperimentazione e dell’innovazione tecnologica al mondo romano vero “interprete” dell’opera muraria a concrezione. E’ nella regione campana (in particolare nelle aree fertili che si affacciano sul golfo greco-sannitico di Napoli) che, lungo il III sec. a.C., verrà scoperta e subito valorizzata una materia che entrerà a far parte, insieme alla calce, della preparazione di una malta molto speciale.
Si tratta, com’è noto, della pozzolana (da pulvis puteolanus, visto che i depositi più noti sono localizzati nel territorio di Pozzuoli) un sedimento litico di deposizione vulcanica sottoforma di lapillo minuto, con eccezionali caratteristiche di coesività conferite dall’elevato contenuto di silice. Tale sostanza rappresenterà un componente fondamentale per la preparazione della malta romana (l’opus caementicium) che andrà a modificare sostanzialmente, lungo il III e il II sec. a.C., la concezione strutturale dell’opera muraria e con essa la stessa idea di architettura ereditata dalla tradizione greca di tipo plastico-lineare che, pur assorbita e frequentemente riproposta all’interno di programmi monumentali, non costituirà più l’unica anima (nè la principale) dei nuovi svolgimenti impressi da Roma al settore delle grandi costruzioni.
Fondazioni in opus caementicium al Palatino e disegno costruttivo. (foto A. Acocella)
Ritornando alla malta, contrassegnata da una lenta ma crescente “fortuna”, affidiamo la descrizione delle tappe significative di tale cammino all’analisi acuta di Hans Lauter:
“Dapprima essa sostituì nei muri di pietre irregolari il più antico riempimento d’argilla; le sue qualità consentirono di fare a meno di allineare e adeguare con molta precisione i singoli blocchi, dal momento che la massa lega e tiene assieme il tutto. Questa fase è attestata da alcuni edifici d’uso del Foro di Paestum costruiti nel primo periodo della colonia romana, certo intorno alla metà del III secolo a.C. Assai presto seguì il passo evolutivo successivo, la scoperta della muratura a sacco.
Piccole pietre maneggevoli vengono messe in opera fino a una certa altezza come una doppia cortina e quindi il loro interno viene colmato con una miscela di malta e pietrisco; si prosegue poi con l’erezione di un’altra fascia della cortina e così via. Nel realizzare le cortine, che Vitruvio definisce significativamente “ortostati”, si curava che le commessure delle pietre piccole delineassero sui lati esterni in vista un bel motivo a reticolo, anche se casualmente non sistematico. Era nato l’opus incertum. Già a partire dal 193 a.C. a Roma fu costruito in questa nuova tecnica il grande magazzino della Porticus Aemilia al porto del Tevere.
Non è necessario descrivere qui in dettaglio la sua marcia trionfale in Campania e nel Lazio, che ne fece di fatto la tecnica costruttiva dominante del tardo ellenismo locale. L’opus incertum è solido e impermeabile; con esso si poteva costruire in altezza, velocemente e in grande, tutte caratteristiche queste che andavano incontro nella maniera migliore alle esigenze dei romani”. (2)
Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. (foto A. Acocella)
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L’interesse mostrato per la tipologia dell’emplecton sia da Vitruvio che, poi, da Plinio nelle loro opere teoriche è dovuto, molto probabilmente, all’aspirazione di voler rintracciare un antecedente nobile di tradizione greca per il “romano” opus caementicium quale procedimento di costruzione basato sull’uso di pietrame minuto informe (caementa) annegato, insieme alla malta, all’interno di cortine murarie (realizzate per due secoli unicamente con elementi di pietra e, poi, con laterizi cotti) che fungono da casseforma e da paramento, spesso, lasciato a vista. Il successo che incontra l’opus caementicium porterà alla progressiva perdita del primato da parte della concezione costruttiva in pietra alla “maniera greca” facendo parallelamente crescere una visione dell’architettura come struttura involucrante uno spazio interno progressivamente dilatato basata su strutture di concrezione che spesso ne definiscono i limiti attraverso superfici – sia in pianta che in copertura – non più solo “in piano” ma anche, ricorrentemente, in curva.
È soprattutto nel II sec. a.C., con il generale mutare dell’equilibrio politico ed economico nel Mediterraneo a seguito del fenomeno di espansione militare romana, che si affievolisce la lunga tradizione costruttiva all’uso massivo, strutturale ed omogeneo della pietra. Si aprono così, con gli ingegneri e i costruttori romani, nuovi fronti applicativi per gli stessi materiali lapidei, ricchi di inaspettati risultati per l’architettura.
di Alfonso Acocella
(*) Il saggio è tratto dal Capitolo “Muri”, pp.68-71, del volume L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
(1) Hans Lauter, “Materiale e tecnica” p.52, in L’architettura dell’Ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, 1986), pp. 296.
(2) Hans Lauter, “Materiale e tecnica” p.59, in L’architettura dell’Ellenismo, Milano, Longanesi, 1999 (ed. or. Die Architektur des Hellenismus, 1986), pp. 296.