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25 Ottobre 2005

Interviste

Intervista a Kengo Kuma


Kengo Kuma (foto di Luigi Alini)

Nicola Marzot, lungo il percorso interpretativo del Nagasaki Prefectural Art Museum di Kengo Kuma, intervista l’architetto giapponese.

Nicola Marzot. I musei oggi sono istituzioni complesse, che producono, distribuiscono e consumano opere d’arte, entrando talvolta in competizione con la città che li accoglie. Qual è la concezione complessiva che lei ha inteso affermare a Nagasaki?
Kengo Kuma. Mentre progettavo questo museo d’arte ho deciso di costruirlo come se fosse un’interfaccia tra Nagasaki e la gente che visita la città. In passato la stessa Nagasaki ha svolto un ruolo di interfaccia – esclusivo, a dire il vero – tra il Giappone e l’Europa. In epoca Edo, era l’unico porto autorizzato ad avere contatti commerciali con gli altri paesi. Ho voluto recuperare questa meravigliosa tradizione in seno al museo. Oggi l’arte è un elemento basilare per creare un’interfaccia nelle città, perchè ha il potere di fungere da veicolo che consente alle persone di interagire sia con la città sia con altre persone.

N.M. Il museo occupa un’area ibrida, in cui i tessuti urbani, riducendosi a puri tracciati stradali, si dissolvono progressivamente nell’orizzonte marino, che pervade la città attraverso il sistema dei canali. Quali suggestioni le ha trasmesso il contesto durante la definizione dell’idea progettuale?
K. K. L’area stessa è tagliata in due da una linea che segna il confine tra spazi e ambiti eterogenei: è ubicata su un tratto che separa un canale dalla terraferma, i vecchi terreni da quelli appena bonificati e il quartiere commerciale dalla zona verde sul mare. Il museo è stato studiato per collegare questi diversi spazi e ambiti. L’edificio diventa un quindi un ponte che unisce il canale alla terraferma e, trasformando il tetto in parco, sono stato in grado di integrare due spazi dissimili (un parco e un edificio) in un’unica entità. Si tratta di una soluzione urbana singolare, derivante dal concetto generale di "museo come interfaccia".

N. M. Il museo ha una configurazione fortemente introversa, aperta verso l’esterno quasi esclusivamente lungo il canale che lo percorre e ne diventa il fronte principale. L’ingresso al museo è definito attraverso una stratificazione successiva di diaframmi con un diverso grado di trasparenza, sovrapponendo teorie di frangisole e pareti vetrate. Che risultato spaziale ha inteso ottenere?
K. K. Il mio obiettivo è sempre stato quello di dare vita a edifici che non fossero semplicemente oggetti indipendenti, bensì "aperture o cavità". Se paragoniamo un edificio al corpo umano, il punto più importante sono gli organi interni, ossia le "aperture o cavità". Le cavità costituiscono l’interfaccia; è attraverso di esse che si raggiunge la comunicazione tra esterno e interno. Questo spiega perchè la pelle che riveste una cavità è costituita di delicate mucose che consentono l’ingresso e la fuoriuscita soltanto alle sostanze necessarie.
Questo museo è diviso in due sezioni da un canale che lo attraversa. Ho ideato il progetto immaginando il tratto di canale come cavità, in modo che il canale agisse da interfaccia di collegamento tra la città e il museo. Ecco perchè la "membrana" di questa cavità, come le mucose umane, è delicata ed espleta la funzione di filtro complesso. Si tratta di un layout in netto contrasto con i soliti progetti di costruzione. In un certo senso è paragonabile a un sistema biologico.

N. M. Il grande filosofo tedesco Martin Heidegger sosteneva che il ponte, rivelando per antonomasia il carattere performativo dell’architettura, costruisse il luogo attraverso l’azione del collegare le opposte rive di uno stesso fiume. Mi pare che tale definizione si adatti perfettamente al museo di Nagasaki. La trova appropriata per descrivere sinteticamente il suo lavoro?
K. K. È molto interessante che Heidegger percepisse l’architettura come "un ponte" piuttosto che "una torre." In realtà intendeva dire che l’architettura non è un simbolo. Al contrario, creandola, o sperimentandola, gli oggetti e le idee che fino a quel momento erano rimasti divisi gli uni dagli altri, o che si ritenevano in conflitto gli uni con gli altri, si univano a formare un’unica entità. Analogamente, in questo progetto ho deciso di avvalermi di tutta una serie di elementi contrastanti per poi collegarli mediante questo edificio. Ad esempio, ho cercato di congiungere elementi antitetici e contraddittori: la terra e il mare, l’edificio e il parco, la trasparenza e l’opacità. In questo modo il ponte che attraversa il canale rappresenta l’essenza della struttura. A mio avviso la definizione di Heidegger di architettura descrive perfettamente questo edificio.

N. M. Lei distingue chiaramente l’articolazione degli spazi utili, continui ed intercomunicanti, dal sistema dei collegamenti orizzontali, tangenziali all’edificio e nettamente distinti dai primi, tanto in termini strutturali che figurativi. In che misura l’architettura tradizionale giapponese ha influenzato queste scelte?
K. K. Con il canale situato al centro, i tre elementi spaziali comprendenti il canale, la linea di scorrimento e la galleria hanno una disposizione tettonica. Ciò potrebbe richiamare l’allineamento del vano corridoio noto come engawa, o veranda, nell’architettura tradizionale giapponese. Ad esempio, il Palazzo Katsura di Kyoto si presenta con un corridoio tra lo spazio principale e quello esterno. Questo corridoio ha un carattere spaziale intermedio che serve anche da filtro per regolare la luce, la temperatura e gli altri elementi ambientali dello spazio principale. La vista del giardino da quel punto è estremamente piacevole. In questo museo vi è uno spazio intermedio simile, sempre presente tra il canale e la galleria e tra il canale e l’atrio. Non ho creato questi allineamenti rifacendomi alle tradizioni giapponesi, piuttosto volevo dare vita a uno spazio semiaperto gradevole, di cui i visitatori possono godere passeggiandovi mentre ammirano il canale. L’allineamento si è sviluppato in modo naturale.

N. M. La struttura dell’atrio di ingresso sembra perseguire una riduzione dell’architettura all’archetipo, rivelando una chiara concezione tettonica basata sulla discontinuità tra struttura portante ed involucro chiudente, corrispondenza tra interno ed esterno, unità dello spazio sotteso. In altre parti prevale il tema dell’architettura come "paesaggio artificiale", le cui pareti litiche idealmente affiorano dall’orizzonte marino, coronate da un sistema di suggestivi giardini pensili posti a quote differenti. Condivide l’esistenza di una duplice matrice concettuale nel progetto e, nel caso, qual è il suo significato?
K. K. Come ho già detto in risposta alla seconda domanda, l’ubicazione di questo museo è caratterizzata da contesti urbani eterogenei contrapposti. In altre parole, parco e città, terra e acqua, oggetti statici e oggetti dinamici si incontrano in questo luogo. La funzione del museo è di armonizzare e bilanciare questi elementi discordanti. Ad esempio, la vegetazione del parco si estende al tetto del museo fino ad assumere l’aspetto di un giardino pensile. L’atrio di ingresso è stato progettato affinchè avesse una struttura il più trasparente possibile, per accogliere all’interno dell’edificio il meraviglioso scenario del porto di Nagasaki che si estende di fronte. Di conseguenza, vari linguaggi architettonici che di norma striderebbero fra loro, in realtà coesistono in questo edificio, e sono molto prossimi gli uni agli altri. È il caso, ad esempio, di una scatola di vetro e di un giardino pensile, o della trasparenza e dell’opacità. A tale risultato si è giunti sviluppando e dilatando il concetto di fondo, ovvero, gettare un ponte di collegamento tra spazi e ambiti diversi.

N. M. L’opera di carpenteria metallica del museo risulta molto complessa, ed assume un ruolo significativo nella qualificazione dei suoi spazi. Come si è sviluppato il rapporto progettuale con il partner Nihon Sekkei?
K. K. La sfida maggiore nel progettare questo museo è stata quella di creare un equilibrio fra trasparenza e opacità. L’edificio in sè era trasparente, ma presentava un oggetto pesante e opaco sul tetto, il giardino pensile, e si correva il rischio che rimanesse staccato dall’incantevole ambiente circostante. Mi serviva un corpo strutturale leggero in acciaio piuttosto che in cemento armato, cupo e greve. La struttura del ponte che attraversa il canale doveva essere in acciaio leggero. Se avessi usato materiali diversi per rivestirli, la luce e l’elegante costruzione che avevo creato con tanta fatica sarebbero diventate smorte e opprimenti. Le parti metalliche, comprese quelle dell’ossatura muraria, hanno richiesto una cura e un’attenzione di gran lunga maggiori. Ne ho discusso a fondo e minuziosamente con i progettisti di Nihon Sekkei, e alla fine abbiamo sviluppato particolari nuovi e unici.

N. M. L’uso della pietra nel rivestimento dell’involucro murario e nei frangisole sembra contraddire il peso e la resistenza propri della materia naturale, conferendole una inusuale leggerezza e fragilità. Risultati, questi, per altro già perseguiti nello Stone Museum. Ci può spiegare le ragioni poetiche di questa scelta e, soprattutto, come è stata ottenuta in termini tecnici?
K. K. La coesistenza di trasparenza e opacità, leitmotiv di questo edificio, è rappresentata dai frangisole ottenuti dal granito brasiliano. Avevo già adottato quest’idea quando mi fu chiesto di progettare lo Stone Museum a Nasu, nella prefettura di Tochigi. Per il museo di Nagasaki ho usato una pietra ancora più delicata. Oggi la pietra trova impiego come copertura di strati superficiali. Un edificio, raramente per non dire mai, trasmette la forza della pietra pura e intatta. In questo museo, frammenti di pietra dello spessore di 30 mm sono fissati a massicce colonne d’acciaio come se stessero "galleggiando" per conto loro. Se mi fossi limitato a rivestire le colonne di pietra, questa sarebbe diventata un materiale contraffatto usato solo per adornare alla meglio la superficie. Sentivo che non era possibile sfruttare la forza della pietra nell’edificio, così ho elaborato un particolare che dà l’impressione che la pietra stessa stia "galleggiando" a mezz’aria, disgiunta dalle colonne. Grazie a questo dettaglio la vigorosa presenza della pietra può coesistere con la trasparenza dello spazio.


Nagasaki Prefectural Art Museum (foto di Daici Ano)
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N. M. Il museo risulta programmaticamente privo di finestre, sostituite da diaframmi continui in vetro, parzialmente oscurati dai frangisole verticali, e da lucernari. Come interviene la luce, naturale ed artificiale, nella definizione degli spazi del museo, anche in funzione della percezione delle opere esposte.
K. K. Abbiamo pensato che una finestra fosse troppo banale e scontata, sia come strumento per far entrare la luce sia per ammirare il paesaggio esterno. Una finestra, alla stregua di una cornice, sortisce il proprio effetto soltanto quando ci si trova davanti. Inoltre scontorna il paesaggio esterno, creando un effetto statico e restrittivo. I frangisole verticali in pietra che abbiamo usato per questo museo gettano ombre che cambiano di minuto in minuto con il movimento del sole. Questo schema consente di percepire lo scorrere del tempo e di scoprire l’alternarsi delle stagioni. Passando accanto alla struttura dei frangisole i visitatori sono in grado di sviluppare una serie di percezioni del paesaggio esterno. A volte i frangisole appaiono come una lastra di vetro completamente trasparente, oppure, se visti da un’angolazione ridotta, vengono percepiti come una massiccia parete litica. Quindi una parete frangisole litica può definirsi una parete "fenomenologica" rispondente alle percezioni che di essa abbiamo.
Il museo utilizza il frangisole – uno strumento delicato che si presenta come un oggetto infinitamente mutevole – quale mezzo per collegare lo spazio espositivo con l’area esterna. Le opere sono illuminate da diversi tipi di luce, a seconda della stagione e dell’ora, e per questo possono apparire ai nostri occhi in svariate forme espressive. Inutile dire che ogni singola luce viene regolata con estrema cura, in modo da non danneggiare le opere esposte.

Marzo 2005 Nagasaki

(L’intervista è tratta da Kengo Kuma, Nihon Sikkei. Nagasaki Prefectural Art Museum, a cura di Nicola Marzot, Bologna, Editrice Compositori, 2005, pp. 119. Si ringrazia l’Autore e l’Editore per la gentile concessione alla rieditazione)

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