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Riflessioni a margine del Convegno "Pietra e Creatività"


Disegno di Antonello Silverini (da Nòva, Sole 24 ore)

Materialità | Immaterialità
Nella società attuale, sostenuta da un’economia complessa ed interagente su scala planetaria, si afferma sempre più la visione di sviluppo alimentata dal mix di innovazione – frutto del “fare tecnico” operante dall’interno delle organizzazioni di produzione – ricerca e creatività prodotte, queste ultime, dalle èlite intellettuali e professionali. Tale situazione è conseguenza diretta del nuovo ciclo di sviluppo che ha fatto crescere d’importanza la condizione immateriale nei processi economici e nelle stesse esperienze di vita degli individui.
La cosiddetta economia della conoscenza s’impone con forza crescente nella quasi totalità dei settori dove il capitale umano e le competenze si pongono come essenziali e strategici per la creazione della ricchezza più di quanto, fino ad oggi, hanno rappresentato rispetto al capitale finanziario e a quello fisico di produzione.
Se da un lato le stratificazioni storiche del territorio – che chiamiamo oggi paesaggi culturali, città e borghi, beni artistici – insieme a tutti i prodotti di qualità dei luoghi costituiscono “nuova” ricchezza (“giacimento” come qualcuno afferma, in quanto risorse uniche, identitarie e non delocalizzabili) sul fronte squisitamente produttivo dell’industria è solo il dinamismo, l’innovazione, lo sviluppo di prodotti ad alto valore aggiunto a rappresentare campo di competizione e di affermazione rispetto ai mercati internazionali.
In un’economia profondamente cambiata il regime proprietario del capitale fisico e delle stesse materie prime ha subito un ridimensionamento d’importanza.
È il capitale intellettuale (fatto di competenze, di intelligenze, di cultura, di relazioni) a rappresentare il motore principale dei processi economici. Nell’era della new economy le risorse più ambite e ricercate sono le idee, il talento, i concetti, le narrazioni (quel mondo fatto di racconti, immagini, di visioni ed esperienze di vita pre-figurate) che assurgono al ruolo di entità intangibili dei “prodotti”; attributi simbolici posti a rappresentare il valore aggiunto, irrinunciabile, per ogni processo di affermazione sui mercati di beni, servizi, luoghi.
Stiamo assistendo ad una trasformazione epocale – sicuramente di lungo periodo – del rapporto fra “produzione materiale” e “produzione immateriale” che la molteplicità dei media è capace oramai di amplificare, riverberare e diffondere in forma istantanea, veloce e pervasiva nel mondo intero.
Conclusasi l’era dell’industrialismo di stampo fordista radicato ai territori nazionali, alla solidità dei muri di fabbrica in difesa dei grandi apparati tecnologici di produzione, alla condizione proprietaria di macchine e materie prime, oggigiorno le aziende e le organizzazioni del lavoro sono dipendenti in maniera crescente dall’accesso al circuito dell’immaterialità fatto di conoscenze, di flussi di informazioni, di racconti.
Far affermare beni e servizi attraverso immagini e idee – “fissate” indelebilmente nel corpo dei prodotti dell’economia contemporanea – sta diventando condizione arricchente irrinunciabile.
L’accesso ai prodotti è sempre più di natura cerebrale. I messaggi evocativi o affabulativi “vestono” le forme e le prestazioni dei prodotti intervenendo sugli stati emotivi degli individui.
S’intuisce facilmente allora come interessarsi al circuito generativo e diffusivo delle idee, attrarre intelligenze e figure di talento assume oggigiorno pari importanza del possesso (o della disponibilità) della materia e dei beni strumentali. Soprattutto negli ultimi anni il valore delle idee ha assunto, all’interno delle organizzazioni produttive, un ruolo e una centralità inediti.
L’innovazione, la ricerca, la comunicazione – “stati” ed attività senza peso e corporeità – rappresentano le più appetibili risorse dell’economia mondiale tali da surclassare, spesso, il “fare tecnico”.
Non pochi analisti e visionari sostengono che la creatività, le idee e le narrazioni legate ai diversi linguaggi (architettura, design, arti, letteratura ma anche poesia, videoart, pubblicità, teatro, cinematografia…) sono oramai diventate le più strategiche risorse dell’era dell’economia globale. Addirittura gli stessi flussi di dati, informazioni, notizie – benchè meno “proiettive” rispetto a idee, creatività e saperi – svolgono il ruolo di beni economici in quanto infrastruttura primaria lungo la quale (e, spesso, a partire dalla quale) si afferma ogni prodotto e, quindi, ogni forma di produzione e ricchezza.
“La nuova era – afferma Jeremy Rifkin – è più immateriale e cerebrale; è un mondo di forme platoniche, di idee, immagini, archetipi, concetti e finzioni. Se l’individuo, nell’epoca industriale, si preoccupava di possedere la materia per manipolarla, il rappresentante tipico della prima generazione dell’era dell’accesso è assai più interessato alla manipolazione delle menti. Nell’epoca dell’accesso e delle reti, in cui le idee sono il fondamento dei commerci, essere onnisciente è ciò che rende l’uomo simile a Dio; ed essere in grado di espandere la propria presenza mentale, di essere universalmente connesso, in modo da poter dare forma alla stessa coscienza umana, è quello che muove l’attività economica in ogni settore.
L’uomo si nutre di idee e di pensiero come di pane e di vino. Se l’era industriale ha nutrito il nostro essere corporeo, l’era dell’accesso alimenta il nostro essere mentale, emotivo e spirituale. Mentre l’era che sta volgendo a termine si caratterizzava per il controllo dello scambio di beni, la nuova era si caratterizza per il controllo dello scambio dei concetti.
Nel ventunesimo secolo, le imprese saranno sempre più coinvolte nello scambio di idee e, a loro volta, gli individui saranno sempre più propensi ad acquistare l’accesso a tali idee e all’involucro materiale in cui saranno contenute. La capacità di controllare e vendere pensiero diventerà la forma più sofisticata di abilità commerciale.”1

Alfonso Acocella

1Jeremy Rifkin, “La mente domina la materia” p. 75 in L’era dell’accesso, Milano, Mondadori, 2001 (tit. or. The Age of Access, 2000), pp.405. Sull’argomento si veda anche Dominique Foray, L’economia della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 148.

commenti ( 1 )

6 Settembre 2006, 13:42

Andrea Cattabriga

Concordo ampiamente con analisi a lungo termine sul ricollocamento del baricentro commerciale verso la produzione intellettuale anche se attualmente stiamo vivendo in una fase di transizione in cui i mercati hanno avuto la capacità di rigenerarsi per via della necessità di trovare nuovi spazi e soprattutto per riuscire nella continua rincorsa della crescita. A fronte di una difficoltà intrinseca causata dall’incontrastabile competitività dei paesi emergenti in campo di produzione materiale dei beni di consumo, si è dovuto inventare qualcosa: l’oro di questo decennio è la logistica, ovvero come fare soldi spostando merci fra paesi (come per esempio il fardello delle quote all’interno della UE), oppure aggiungere chilometri fra una fase e l’altra della filiera produttiva. Questa per quanto concerne il quadro attuale.
Ma ciò che mi preme portare sul piatto di questa discussione è un’interrogativo aperto sulla durata di questo ipotetico mercato globale fondato sui beni intellettuali.
Con quali evidenze scientifiche è possibile dimostrare un aumento esponenziale della domanda di queste risorse, al di là di un’aumento della scolarizzazione e della conseguente formazione di una società più “open-minded”?
E’ veramente possibile che l’uomo del futuro abbia poi il tempo materiale per consumare questo tipo di prodotti?

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