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Sulle ali di Perseo (IV parte)


“Senza Titolo” 1996. Disegno di Tullio Pericoli

Bits di pietra
Il volume de L’architettura di pietra editato a fine del 2004 – posto all’origine dell’attuale svolgimento digitale del progetto culturale – è segnato, al pari della materia litica, dai tratti di corposità, di massa, di peso.
Mentre portavamo a termine la pubblicazione promossa dalla Lucense ci è apparso che nell’epoca della globalizzazione e dell’economia delle reti (con flussi di dati in perenne trasferimento assicurato dai nuovi canali comunicativi capaci di rendere veloci, istantanee e in perenne aggiornamento le informazioni, le immagini senza più alcun vincolo di spazio e di tempo) fosse necessaria una evoluzione, se non una vera e propria metamorfosi, per il nostro progetto culturale non valutato come concluso.
Avvicinare il mondo della velocità e della leggerezza comunicativa contemporanea – potente e redistributiva su scala mondiale – rispetto al più statico e pesante orizzonte dell’editoria cartacea è diventato, ad un certo punto, il nostro sogno.
Ecco allora che – già nella fase finale di chiusura del volume, prima di rilasciarlo definitivamente alla sua vita e ai suoi lettori – si “materializza” un primo evento, segnale premonitore di una futura ed allora inattesa rinascita.
Il cammino verso uno stato di smaterializzazione investe già l’atto conclusivo della produzione del libro, potendosi intendere – ex post – come segno inaugurale della metamorfosi dei modi di svolgimento del progetto culturale. La sovraccoperta candida che avvolge L’architettura di pietra è come posta a nascondere, a dissimulare la corposità del volume cartaceo; prima azione protesa ad una sostanziale sottrazione – sia pur solo illusiva – di peso.
Non casuale – allora – apparirà al lettore la riproposizione del carattere diafano della home page del weblog, porta di accesso e di transizione al nuovo spazio comunicativo di natura immateriale.
Riguardando il millennio appena conclusosi dalla prospettiva del sapere, della trasmissione della memoria attraverso tracce registrate indelebilmente su supporti fisici, possiamo rilevare come tale lunga stagione temporale abbia rappresentato l’epoca del libro.
Inaugurando il nuovo secolo, sempre più, invece, ci si interroga sulle forme attraverso cui oggi è “erogata” l’informazione, la formazione, la comunicazione; lo stesso ruolo – finora centrale – del libro è messo in discussione. La rivoluzione culturale in atto – tutta al di fuori dello spazio tradizionale della scuola, dell’Università – non è rappresentabile più attraverso il sapere dei libri o degli spazi delle biblioteche (una volta affollati e frequentati) con pile di volumi sui tavoli in attesa di essere aperti, sfogliati, letti, riprodotti o trascritti in appunti.
Sempre più, flussi di dati ed immagini scorrono velocemente ed interrottamente distribuendosi sui circuiti dei diversi canali sotto forma di bits, di impulsi elettronici senza peso e corporeità.
Nel momento in cui il settore editoriale tradizionale (insieme alla produzione intellettuale universitaria che lo alimenta, oramai sempre più stancamente, in forma puramente autoreferenziale o di “assecondamento” commerciale) rischia di avviarsi alla staticità e alla inerzia ridistributiva del sapere, ci ha affascinato l’idea di provare – attraverso un “colpo di ali” – a volare nel nuovo spazio del web.
Non una fuga, bensì il confronto con un nuovo e, per certi versi, sconosciuto medium comunicativo.
L’esperimento si lega ad un’idea di alleggerimento dei “vincoli di peso” del progetto culturale dell’architettura di pietra: vincoli autoriali (dall’autorialità individuale a quella collettiva, cooperativa), temporali (dalla temporalità lunga e lenta dell’editoria cartacea all’istantaneità e alla velocità del web), spaziali (dalla spazialità puntiforme del libro alla continuità di distribuzione e ubiquità dei contenuti in internet), produttivi (dai condizionamenti economici della proprietà editoriale alla libertà dell’autopubblicazione del weblog), di peso dell’informazione stessa (dalla materialità della carta all’immaterialità e leggerezza assoluta dei bits). In sintesi un cambio di prospettiva attraverso cui guardare il mondo (compreso l’orizzonte disciplinare specifico dell’architettura di pietra) adottando nuovi metodi di reperimento e raccolta delle informazioni, di rielaborazione e condivisione delle conoscenze, di confronto dialettico dei risultati conseguiti lungo un continuo work in progress.
La ricerca di leggerezza nello svolgere l’avanzamento del progetto culturale è per noi uno stato d’animo nuovo che poggia le sue attese più autentiche nella libertà delle idee, nella disponibilità di una spazio comunicativo espandibile (che immaginiamo illimitato), di una scrittura fluida (non risolutiva o definitiva, ma interlocutoria e dialogativa) indirizzata a raggiungere velocemente (senza limiti di spazio, di tempo, di peso) i propri interlocutori augurandosi di ricevere – di rimbalzo, dai lettori – altre posizioni, altre interlocuzioni, altre scritture sull’architettura di pietra diventata concetto e sfondo immateriale di confronto.
La solidità, la corposità, la pesantezza della materia (“litica” nel caso della realtà architettonica di pietra; “cartacea” nel caso dell’oggettualità del libro che la trasferisce su di un piano di memoria, di rappresentatività e di comunicatività) sembra d’un tratto dissolversi di fronte alla leggerezza, alla virtualità esistenziale del nuovo medium scelto per l’evoluzione del progetto culturale.
L’azione scientifca posta ad esercitarsi sul tentativo della riabilitazione e soprattutto dell’attualizzazione dello Stile litico, ricerca così i “modi” del nuovo spazio in cui si evolve la prosecuzione del viaggio; uno spazio comunicativo immateriale, per certi versi simmetrico all’incorporeità delle idee: spazio ideale, etereo, effimero, instabile, fluido, debordane, pluridirezionato, libero.
Ecco allora che la “pesantezza” della pietra viene rovesciata – anche da questa particolare prospettiva – nel suo contrario.
La leggerezza ritorna.

Alfonso Acocella

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commenti ( 7 )

2 Febbraio 2006, 14:06

Maria R. Perbellini

Il tema del ribaltamento del destino della materia (qui pietrosa/cartacea) trovo si possa collegare al tema del ripensamento dell’architettura nella società dell’informazione.
Noi giovani architetti ci troviamo di fronte alla necessità di reinventare e riconcettualizzare l’intera disciplina, di ricercarne l’interiorità più dinamica e flessibile. L’ubiquità e l’interattività dell’informazione, cosi come la globalizzazione suggeriscono la neutralizzazione delle distanze e la nascita di cyberspazi.
La rivolta viene dalle nozioni di tempo, velocità, movimento, flussi, dislocazione ma anche dalla dissoluzione dei confini, da nuove modalità possibili, da differenti configurazioni simultanee.
Come replicare a condizioni sociali e culturali mutanti? Che identità assumere? Abbiamo ancora bisogno di biblioteche, di librerie, di scaffali? Che cosa devo conoscere?
Ritengo sia importantissimo sapere ciò che è stato fatto prima, studiare ad es. la Laurenziana, mettere il passato vivo nel presente per meglio confrontarsi con alternative organizzazioni spaziali e superficiali, con futuri modi differenti di “contenere translibri”. Come dice Neil Denari: "Si può fare in modo che l’architettura diventi a sua volta un flusso, capace di mutare velocemente con grande precisione le proprie sorti: dallo spazio alla superficie, alla grafica, alla luce e daccapo."

Da: C. Pongratz, MR Perbellini, "Natural born CaaDesigners", Birkauser, 2000:
….Yet, the argument of the next millenium may still hinge on form versus formlessness, or what Jeff Kipnis calls "deformation" versus "information". In other words, the notion of an "intermedial architecture", which is intelligent, interactive and virtual in its organization, would pose two major trajectories. First, as Andrew Benjamin called it, there is the problem of formalism, the formal innovation emerging through progress in science and computational technology. Here, the chosen instrumentality of the design inherent computational specific generation, or specific characteristics in the generative process may lead to topological, smooth and soft systems with an emphasis on the formal assembly. However it is the organizational structure and the inherent inter-relationship between different media that accelerates the potentiality for the emergence of a differentiated reality. Secondly, another trajectory of current practice is a non-conventional otherness that redefines space through the interface of architecture and media. However it includes a heterogeneous group of approaches. These represent a search into vibrant hypermedia, or into virtual tectonics in cyberspace, into virtual textures, into our live-ness or into the flatness of corporate code-systems: all different conditions of a common dynamic convergence between architecture and media. Its technological manifestations redefine the interaction of architecture and the user through the propagation of information flows. The emanating condition is a fluid, flexible and dynamic architectural space that continuously supersedes reality. The temporality and the tendency to dematerialize emerging structures are a result of a cross penetration of multiple streams of information, energy and movement, and dominate a redefined space.
Architecture consisting of variables and virtual agents, is based on an interactivity that transforms space, time and perception….

2 Febbraio 2006, 19:58

Philomène Gattuso

La storia dell’architettura ci insegna che il percorso iniziato sin dalle origini del costruire ha alla base lo sforzo di realizzare un’architettura sempre più “leggera”: anche se la nozione di peso non è eliminabile: tutto ha un suo peso… tutto è un gioco di forze e di tensioni, e questo non è poi tanto brutto, l’importante è saperle gestire queste forze!
A livello intellettuale sicuramente questo nuovo strumento ricco di potenzialità che è Internet ha offerto un vero e proprio “battito di ali”, dando velocità alla comunicazione e all’offerta formativa, oltrepassando ogni limite e ogni preconcetto.
Il mondo cartaceo sta cedendo il passo alla comunicazione istantanea che avvicina luoghi, spazi, città, persone, menti, culture … e con una qualità sicuramente anche elevata.
E’ uno scambio più vivace, fresco, è un dibattito sempre aperto, quotidiano, è partecipazione: "[…] nel silenzio del pensiero, noi percorriamo fin d’ora i viali informatici del cyberspazio, abitiamo le imponderabili dimore digitali ovunque diffuse, che costituiscono fin da adesso le soggettività degli individui e dei gruppi.[…]. E’ un’architettura dell’interno, un sistema incompiuto delle strumentazioni collettive di intelligenza, una volteggiante città dai tetti di segni." (Tratto da: P.Lèvy, L’intelligenza collettiva, Feltrinelli Milano, 1996. )
In un mio post dal titolo “IL CYBERAVATAR NEL CYBERSPAZIO”, su un blog al quale partecipo (http://cyberavatar.splinder.com/ ) ho scritto riguardo a quello che vengono definiti cybergeografia, cyberspazio, cybercultura e cyberarchitettura
Nel cyberspazio la Rete digitale abbraccia il mondo mettendo in connessione persone e pensieri, luoghi e risorse, poteri e organizzazioni: il cyberspazio è una nuova dimensione ricca di spazi antropici, di territori dove si sviluppano la vita e le attività degli uomini.
In questa nuova dimensione senza confini dello spazio culturale, si colloca anche l’architettura con i suoi nuovi “cyberarchitetti” che hanno da tempo iniziato a portare avanti l’idea di lavorare alla propria architettura da qualsiasi luogo e con altre persone dislocate ovunque per il mondo, immergendosi fisicamente nel progetto con tutti gli altri attraverso uno spazio tridimensionale consentito dalle potenzialità della rete, avendo anche a disposizione un database che consente di accedere ai dati forniti da altri professionisti. Costruire così il progetto perfettamente dettagliato, anche nei costi, e con un semplice clic mandarlo direttamente in produzione…: tutto si alleggerisce e diventa accessibile, dinamico e collettivo.
L’evoluzione continua, la sperimentazione fa nuovi traguardi…

3 Febbraio 2006, 00:48

alfonso acocella

Gli uomini in avvio di terzo millennio si trovano immersi nello spazio geografico, urbano o architettonico reale come – pure a distanza di frazioni infinitesimali di tempo – trascinati, risucchiati nel cyberspazio.
Il cyberspazio include sia lo spazio virtuale connettivo delle reti (quello che possiamo definire lo spazio della cybercultura, o della cybercomunicazione) poste a collegare e rendere fruibili narrazioni in corso, archivi, banche date e flussi informativi, sia ogni ambiente spaziale simulato – illusivo ed esperienziale – qual è la nuova frontiera dello spazio virtuale immersivo.
Se lo spazio virtuale delle reti rappresenta un ambiente in forma di piattaforma "esterna" all’entità mente-corpo, lo spazio virtuale immersivo (con caratteri di prossimità più che di distanza) si pone come "ambiente abitabile" da parte del fruitore che – grazie ad interfacce di interazione – lo percepisce, lo interpreta, lo "usa" tendenzialmente come campo di esplorazione sia pur simulata.
Per il momento vorrei fermarmi alla prima accezione di cyberspazio culturale valutato quale nuovo orizzonte di produzione e di ridistribuzione di contenuti (concettuali, testuali, iconici, ma anche prefigurativi – e quindi operativi – di una nuova sensibilità architettonica come annuncia Maria R. Perbellini) rispetto al quale riuscire a relazionare il percorso futuro del blog.
Capire il senso di tale cyberspazio (soprattutto le sue peculiarità) è un passaggio obbligato per poter evolvere coerentemente, intelligentemente, creativamente il nostro progetto digitale.
Jeremy Rifkin attraverso un brano del volume L’era dell’accesso (2000), può aiutaci a prendere coscienza di tale orizzonte. Ad una illuminante citazione – editata in forma autonoma ed enucleata nel commento che segue – affidiamo la delineazione dei caratteri della comunicazione elettronica per una presa di coscienza del quadro concettuale ed operativo in cui si inscrive il nostro progetto che vorremmo progressivamente evolvere, così come indica la stessa Philomène Gattuso (a cui diamo il benvenuto insieme a Maria R. Perbellini fra i membri "attivi" della comunità scientifica in formazione), attraverso un’azione di intelligenza collettiva.

3 Febbraio 2006, 01:02

alfonso acocella

“La stampa organizza i fenomeni in modo ordinato, razionale e obiettivo e, nel farlo, incoraggia un modo di pensare lineare, sequenziale e causale. Il concetto stesso di "comporre" i pensieri si collega perfettamente all’idea che si susseguono in sequenze logiche: una modalità molto diversa da quella della comunicazione orale, dove ridondanza e discontinuità rappresentano la regola.
Eliminando le ridondanze della lingua parlata e rendendo possibili misurazioni e descrizioni precise, la stampa gettò le basi della moderna visione scientifica del mondo. Ricorrendo a standard e protocolli precisi, i fenomeni possono essere osservati e descritti con rigore, e gli esperimenti diventano replicabili: qualcosa di difficilmente realizzabile in una cultura trasmessa in forma orale o manoscritta.
La stampa ha anche introdotto il fondamentale concetto di autore. Prima della stampa, gli autori riconosciuti erano pochissimi: i manoscritti erano spesso anonimi, risultato del contributo di diversi copisti in un periodo di tempo prolungato. Il concetto di autore ha elevato il singolo a uno status unico, separandolo dalla voce collettiva della comunità.
L’idea di autore va di pari passi con il concetto di proprietà delle parole. Per la prima volta nella storia, le leggi sul copyright trasformarono in merce la comunicazione fra individui. L’idea che qualcuno potesse reclamare la proprietà di pensieri e parole, costringendo gli altri a pagare per poterle ascoltare segnò un punto di svolta fondamentale nella storia dei rapporti umani.
Prima dell’avvento della stampa, le persone condividevano il pensiero oralmente, con un dialogo e uno scambio diretti. Persino i manoscritti venivano letti ad alta voce, ed erano pensati per una lettura pubblica, non privata. L’avvento della stampa contribuì allo sviluppo di un ambiente più meditativo: i libri iniziarono ad essere letti in silenzio e in solitudine, creando quel nuovo senso di privacy da cui si sviluppò l’idea di riflessione e di introspezione, che, nel corso dei secoli ha portato alla nascita del pensiero terapeutico su se stessi e sul mondo.
Attraverso la stampa è stato possibile, per la prima volta, diffondere l’alfabetizzazione, istruendo le generazioni successive nell’uso di quegli strumenti di comunicazione necessari per gestire le complessità dei mercati moderni e le nuove modalità di lavoro e di socializzazione. In sintesi, l’avvento della stampa ha creato i presupposti intellettuali e filosofici per l’adozione di un modello di vita "industrioso".
Oggi il computer sta riorganizzando la comunicazione in modo assolutamente rivoluzionario, e si sta trasformando nello strumento ideale per gestire un’economia fondata su rapporti di accesso e sulla commercializzazione di esperienze e di risorse culturali. E, nel corso di questo processo, contribuisce a un progressivo cambiamento della natura della coscienza umana.
La comunicazione elettronica è organizzata ciberneticamente, non linearmente: i concetti di sequenzialità e causalità sono sostituiti da un campo totale di attività continue ed integrate. In un mondo di comunicazioni elettroniche, soggetti e oggetti cedono il posto a nodi e reti; strutture e funzioni vengono sostituite da processi. La modalità organizzativa del computer – soprattutto dell’organizzazione parallela – rispetta il funzionamento del sistema culturale, in cui ogni parte è un nodo in una rete dinamica di relazioni che si riaggiusta e si rinnova di continuo, a ogni livello della propria esistenza.
La comunicazione elettronica, inoltre, organizza la conoscenza in modo diverso da quello utilizzato dalle tecnologie tipografiche tipico dei testi a stampa; il libro, che contiene un numero limitato di dati e di fatti, cede il posto ad un campo di informazioni aperto, in cui ogni nota, rimando o referenza si espande indefinitamente, creando nuovi sottotesti e metatesti.
Il libro a stampa è lineare, rilegato e fisso; l’ipertesto è associativo e, potenzialmente, illimitato. Il libro a stampa è esclusivo per natura e autonomo nella forma: l’ipertesto, invece, è per natura inclusivo e relazionale nella forma. In altre parole, il libro a stampa possiede un inizio e una fine, è completo; l’ipertesto non ha un vero inizio, nè una fine ma solo un punto di partenza da cui gli utenti possono avviare un percorso di connessioni fra materiali correlati; l’ipertesto è in continua metamorfosi e non è mai finito. Il libro a stampa è un prodotto; l’ipertesto un processo. Il primo si presta ad essere posseduto, mentre il secondo è adatto a un accesso su base temporanea.
L’ipertesto mette in discussione anche una delle caratteristiche primarie della coscienza "a stampa": l’idea che esista un autore, proprietario dei propri pensieri e delle proprie parole. L’ipertesto sconvolge il concetto tradizionale di autore: spesso nell’ipertesto, basto su inclusività e connettività, invece che su esclusività e autonomia, non è possibile individuare i confini fra il contributo di uno e quello degli altri. Gli individui tagliano, ricombinano, revisionano e manipolano un materiale, a cui sono giunti attraverso percorsi e usando media diversi; lo combinano con materiale proprio e lo lanciano di nuovo verso i nodi delle reti a cui sono collegati. Quando materiali della natura più disparata diventano parte di un processo aperto che coinvolge più interlocutori distribuiti nello spazio e nel tempo, e non realizzano più un prodotto finito, risultato dello sforzo creativo di un singolo, è difficile assegnare una proprietà esclusiva.
L’ipertesto conduce a quella che il teorico del linguaggio Roland Barthes chiama "la morte dell’autore": una scomparsa che porta con sè quei concetti di esclusività e di autonomia tanto importanti nella strutturazione della mente moderna e del regime di proprietà. Michael Heim, della Graduate Faculty in Communications and New Media presso l’Art Center College of Design di Pasadena in California, osserva che la comunicazione digitale "trasforma l’isolamento individuale della lettura riflessiva e della struttura in una rete pubblica in cui la griglia simbolica personale necessaria all’attività autoriale originale è minacciata dal collegamento con la testualità totale delle espressioni umane" (in "Eletric Language: A Philosophical Study of Word Processing", 1987) Nelle reti si è immersi in testi fra testi e si è in collaborazione continua con altri: in questo ambito, segnare una separazione fra espressione personale e collettiva è difficile se non impossibile. "L’autorità del testo diminuisce" scrive Heim "e altrettanto accade al riconoscimento del sè privato dell’autore creativo". Nel nuovo mondo fatto di computer, ipertesti, nodi, reti e collegamenti l’idea ottocentesca del sè come isola – essere autonomo, materiale definito nello spazio, come un libro a stampa o un bene acquistato o venduto sul mercato – soccombe sotto i colpi del sè relazionale.”

Jeremy Rifkin

La lunga citazione è tratta da: Jeremy Rifkin, "Riprogrammare la mente" pp. 273-276 in L’era dell’accesso, Milano Mondadori, 2001 (tit. or. The Age of Access, 2000)

4 Febbraio 2006, 23:22

Philomène Gattuso

A proposito degli argomenti su cui stiamo discutendo vorrei anche mettere in evidenza un sito di RAI Educational, che trovo molto interessante.
http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/biografi/l/levy.htm

in cui è possibile leggere alcune interviste fatte a Pierre Lèvy (noto filosofo di cultura virtuale contemporanea), che offrono tra l’altro molti spunti di riflessione sui concetti di cyberspazio e cybercultura.

5 Febbraio 2006, 20:25

Maria Antonietta Esposito

Il fatto che mi sembra centrale nella discussione, arricchita da molte citazioni, è in effetti il problema creato dall’impatto della globalizzazione sul processo di ideazione, sviluppo e realizzazione dell’architettura, ossia su quella filiera produttiva, per la verità da sempre virtuale, che noi architetti-tecnologi usiamo definire processo edilizio.
Il fenomeno che identifichiamo con il termine globalizzazione si va connotando soprattutto per i suoi effetti sulla domanda e sull’offerta e, di conseguenza, sui processi di fornitura che la supportano.
Il potere nel mercato globale è nelle mani dei consumatori che chiedono una gamma sempre più ampia di prodotti a prezzi sempre più bassi. D’altra parte l’offerta, in tutti i settori industriali, si va riorganizzando in reti di fornitura per rendere disponibili i prodotti ovunque, grazie alle reti di comunicazione, ed utilizzando anche produzioni de-localizzate o remote per abbattere i costi di produzione.
Nel caso dell’architettura, e dell’edilizia in genere, non si sono avuti fin ora approfondimenti e studi che abbiamo spiegato cosa stia accadendo realmente al nostro settore ed, in particolare, nel processo edilizio e nel lavoro dell’architetto.
A mio avviso però si inizia chiaramente a profilare il ruolo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione come agenti di trasformazione anche del processo edilizio e della progettazione.
Da una parte la produzione-costruzione sembra costituirsi in modalità organizzative che definirei di cantiere virtuale, qualcuno ha parlato anche di tecnologia virtuale (Sinopoli), non già in quanto immateriale, in quanto orchestrata da imprese diverse, in luoghi diversi e con produzioni diverse. Penso al caso delle facciate del Museo Guggenheim di Bilbao: il titanio è stato comperato in Russia, trattato chimicamente e laminato in USA, tagliato in lastre in Italia, rifinito in Spagna e montato in situ nei Paesi Baschi.
Guardando alla progettazione essa è, dall’inizio degli anni ’90, entrata in una fase in cui si può parlare di team virtuale. Nello scenario operativo attuale, il quale appare connotato da una complessità soprattutto evidente come esito di un disequilibrio tra le tre principali variabili della antroposfera, biosfera e tecnosfera, a causa da una pressione eccessiva di quest’ultima, si ha una esplicita richiesta in termini di multi-disciplinarietà per assicurare la gestione della qualità nel progetto. Questo requisito viene ottemperato soprattutto con la organizzazione di catene di fornitura specifiche di servizi professionali in rete. Le tecnologie dell’informazione e comunicazione hanno avuto un ruolo determinante nel supportare questo piccolo progresso che ha consentito alle organizzazioni professionali, che hanno compreso questa dinamica, di affrontare la globalizzazione in modo competitivo con livelli di investimento relativamente modesti, dato il basso livello d’entrata delle tecnologie stesse, e di rimanere sul mercato.
I problemi maggiori si sono avuti sul piano culturale, perchè la mera risoluzione di un servizio efficiente non basta: creare ulteriori isole di automazione nel team virtuale non è il solo requisito da ottemperare: è necessario cambiare la cultura del progetto adeguandola allo spazio tecnologico attuale, cioè quello dell’era digitale.
La natura del lavoro dell’architetto si sta trasformando profondamente ed ecco che sorgono i problemi, più che di proprietà intellettuale, direi con un giuoco di parole, di appropriatezza intellettuale ossia di intelligence (nel senso anglosassone di scienza-conoscenza) soprattutto riguardo alla capacità di dominare le molteplici opzioni potenzialmente possibili. Ciò può avvenire mediante un appropriata gestione del processo di comunicazione con le catene di fornitura sia interne, costituite dalle altre professionalità coinvolte, sia esterne, offerte dall’apparato produttivo-costruttivo, che, soprattutto in quest’ultimo caso, appare culturalmente arretrato.
La situazione attuale è frutto di una discontinuità dello spazio tecnologico attuale rispetto al precedente, paragonabile a quella che,ad esempio, affrontò Messer Filippo Brunelleschi nei primi del 1400 a Firenze, quando, vinto il concorso per la costruzione della cupola di S. Maria del Fiore, si trovò a gestire una situazione in cui la cultura del progetto appariva appesantita da elementi teorici ridondanti e non utili alla soluzione del suo problema costruttivo. Il suo merito, scrive il Benevolo, fu soprattutto la capacità di depurare gli elementi che non erano utili al suo scopo, operando una astrazione concettuale del problema in termini meccanici, adottando un approccio al progetto più razionale, scientifico potremmo dire per la prima volta in architettura. Poichè egli era un meccanico, "plures macchinae divino ingenio ab eo adiventae" (Vasari), fu capace di progettare un processo di trattamento delle informazioni su base geometrica, con le conoscenze già presenti nell’ottica medievale, tale da identificare la prospettiva lineare e nel caso della cupola di trovare il metodo di calcolare i centri di curvatura delle rette che generavano nello spazio 3D la sua forma strutturale. Usando una sorta di CAD rinascimentale, messer Filippo lavorava alle proiezioni in scala reale, sul greto del fiume Arno, poichè non vi era una piazza tanto grande a Firenze per proiettare sul piano i "fiori" luogo geometrico dei centri di curvatura delle rette la cui rotazione generava gli spicchi cilindrici della cupola.
Di conseguenza ebbe anch’egli problemi di comunicazione nelle catene di fornitura del processo edilizio: sia con la committenza, rappresentata dal magistrato dell’Opera del Duomo, Paolo di Gherardo da Prato, che annotta minuziosamente ogni elemento delle misteriose operazioni sul campo di Brunelleschi senza comprenderle, infatti avverte che la fabbrica sarebbe "ruinata con grande pericolo"(Ricci); sia con le maestranze in cantiere che, continuamente controllate e corrette, dovevano eseguire la posa a "spinapesce" dei mattoni con perfezione, proprio per evitare che i difetti esecutivi determinassero un pericolo statico.
Dunque oggi la globalizzazione evidenzia il ruolo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, ma anche la necessità improrogabile di porsi con un atteggiamento diverso di fronte al progetto. Un atteggiamento "creativo" su piano tecnologico più che formale, più simile a quello del Brunelleschi che a quello di molte celebrate star dell’architettura contemporanea; ossia un atteggiamento di progettazione dei "mezzi" del progetto, sulla base delle molteplici opzioni disponibili. Ancora nel museo Guggenheim di Bilbao osserviamo infatti che la pietra arenaria di alcune facciate e che riveste gli interni, materiale pesante, è stata trattata con processi di progettazione e realizzazione simili a quelli adottati per il titanio, al contrario così leggero, la pietra scelta cavata nel profondo sud della Spagna, sebbene durissima, è stata scolpita e curvata come un materiale duttile usando metodi non convenzionali, sono stati inventati sistemi di ancoraggio ad hoc perchè nessuno di quelli in commercio poteva rispondere al peso ed alle sollecitazioni del vento richieste.
Soprattutto è avvenuto che il metodo applicato è stato incentrato sulla progettazione delle tecnologie necessarie a risolvere le prestazioni previste dal progetto è stato simile nei due casi. Come ho avuto modo gia di affermare in questa sede, che mi sembra, per la verità, la più opportuna, questo è il nodo attuale, per iniziare un dibattito e, mi auguro, un percorso che dovrà presto trovare esiti concreti.

6 Febbraio 2006, 00:39

damiano

ci sei stata a Bilbao recentemente?
Le lastre della pavimentazione esterna sono in gran parte danneggiate, a causa di spessori inadeguati rispetto ai grandi formati e/o a difetti di posa.
Le lastre, inutilmente appese alla grande vela, “sorridenti allo spasmo” (come direbbe anna frangipane), sono ancorate con un banale sistema di spine inserite nello spessore di 3 cm e messe in sicurezza, vista la palese insufficienza del meccanismo, con un sistema di funi metalliche ancorate sul retro delle lastre, cosa che ne eviterebbe la caduta lasciandole penzolare nel vuoto.
Il tutto realizzato con una cura che lascia molto perplessi.
Il fatto è anche che l’arenaria “durissima” del profondo sud non è per niente tale, è invece un marmo calcareo andaluso e presenta parecchie imperfezioni e struttura disomogenea.
Non mi sembra quindi l’esempio molto azzeccato, il team virtuale ha qui sottovalutato l’impiego della pietra.

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