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Sulle ali di Perseo (I parte)


Il Perseo di Benvenuto Cellini.

Caro Alfonso,
chiedo venia se fino ad ora non ho partecipato al blog sull’architettura di pietra. Buona parte della mia reticenza era dovuta al fatto che il materiale, la pietra appunto, ha sempre occupato la mia mente dal punto di vista della durata, anzi meglio, la ritenevo sinonimo stesso di eternità (per la quale non nutro particolare simpatia…). Come sai i miei interessi sono sempre stati orientati verso il fuggevole, il temporaneo, l’incerto, il leggero, ciò che manifesta rarefazione e così via, esattamente l’opposto di quello che comunemente si pensa della pietra. Poi, come sempre accade quando approfondisci le questioni, quando superi alcune tappe, si disvelano confini che fino ad allora erano rimasti latenti, nascosti dal temporaneo disinteresse o dalla semplice neghittosità.
Sfogliando gli ultimi interventi del blog mi è balzato alla mente un fatto emblematico: anche questo materiale, al di là del retaggio che trascina con sè, è pur sempre un materiale da costruzione e, in fondo, è stato capace di aggiornarsi lungo tutta la storia dell’architettura. Perchè allora non leggerlo da questo punto di vista? Ogni materiale da costruzione contiene, in maniera diversificata, un certo grado di potenzialità intrinseca nei confronti dell’innovazione, dell’impiego per rappresentare la contemporaneità. Ritengo che l’architettura sia tale solo quando è capace di rappresentare il proprio tempo. Il nostro tempo, dominato dalla tecnica, dall’informazione, dalla comunicazione istantanea, dall’immagine, ecc. richiede materiali e strumenti effimeri, o quantomeno a durata limitata, perchè la nostra è anche l’epoca del cambiamento repentino, della fluidità, dell’instabilità. Probabilmente le nuove rappresentazioni architettoniche (leggi il fluidismo, il decostruttivismo o decostruzionismo, i media buildings) riportano proprio di questo stato di cose. Come può, allora, un materiale che pesa, che ha richiesto lunghissimi periodi per la sua formazione, che è duro (sicuramente di più del vapore del Blur Building…), che necessita di lavorazioni da “tuta blu”, competere con quelli che nascono da asettiche fabbriche automatiche, generati da processi chimicofisici in tempi definiti nemmeno tanto lunghi, che possono essere impiegati e/o formati più volte, laddove l’operatore indossa una “tuta bianca”? Queste e molte altre domande mi si sono avvicendate nella mente per cercare di cogliere la contemporaneità della pietra.
La risposta è arrivata quando ho letto nel tuo blog che qualcuno produce dei brise soleil con fogli di pietra. Tentativo di emulazione della torre Agbar di Barcellona? Semplice innovazione adattiva? Non importa quale sia stata la molla che ha fatto scaturire la soluzione. Ho visto talmente tante soluzioni imitative (persino fin troppo banali) effettuate proprio con questo materiale da comporre un repertorio di soluzioni a dir poco “originali” (le virgolette sono lì per graffiare un po’…). Non voglio, però, dare giudizi di merito, perchè conosco la fatica del lavoro di ricerca. So anche che molte soluzioni sono state messe in campo per vari motivi, dalla richiesta di un determinato mercato alla necessità di rimanere in un determinato mercato. Quindi ben venga ogni cambiamento, di qualunque tipo questo sia. Di fondo c’è sempre una giustificazione e nessuno è stato insignito del titolo di giudice supremo. Quindi, anche se qualcuno storce il naso di fronte al fatto che la comunicazione commerciale tenta di infilarsi nel mondo della produzione culturale (e spesso ci riesce…) è perchè evidentemente si sono avverate le condizioni perchè ciò accada. Significa, probabilmente, che vi è stato un mescolamento, un rimaneggiamento dei ruoli. Significa che i confini tra pensiero ideologico e pensiero pratico sono frastagliati al punto da coincidere. Significa che alcuni territori non occupati sono stati accaparrati da chi è arrivato per primo. Significa che la cultura ha bisogno di sporcarsi le mani per poter riprendere il possesso di quei territori che considera suoi. Insomma, ho la vaga impressione che se il mondo della produzione (e conseguentemente del commercio) tenta un approccio con il mondo della ricerca universitaria è perchè sa bene di trovare qualche interlocutore col quale instaurare rapporti proficui (per gli uni e per gli altri…). Da una parte ogni investimento sull’università produce sempre e comunque una ricaduta, perlomeno di immagine. Dall’altra parte, viste le magre risorse disponibili, sembra che siano state spalancate le porte ad ogni attività capace di rendere economicamente. E l’ideologia? L’orgoglio? Il decoro? E via di questo passo? Pecunia non olet, per cui sembra che i fini giustifichino sempre i mezzi. È disprezzabile questa posizione? Personalmente credo di no. In fondo se questa è una democrazia, seppur imposta e imponibile con le armi, sono ammesse tutte le furbizie, specie in un gioco senza regole.
Tornando alla pietra mi sono reso conto che è un materiale assolutamente attuale, purchè non la si voglia trattare come puro e semplice materiale decorativo, oppure surrogato di altri. In fondo ha una notevole dignità, forse è proprio il materiale che porta con sè un livello di dignità maggiore di tutti gli altri. Quindi auspico che le soluzioni che lo vedono impiegato nelle recenti architetture esaltino le sue qualità di leggerezza, di immagine temporanea, di attualità.

Un caro saluto Pietro Zennaro


Il Perseo di Benvenuto Cellini.

Caro Pietro,
molti fili e nodi problematici sono intrecciati nel tessuto concettuale delle riflessioni che ci consegni attraverso un file digitale.
Fra i tanti percorsi possibili di interlocuzione quello che consente – oltre che una risposta (sicuramente parziale) alle tue osservazioni ed interrogazioni – di precisare e, anche, di sviluppare in qualche modo idee in nuce è il tema della leggerezza (valore, qualità, condizione peculiare della contemporaneità) apparentemente molto distante da ciò che la materia litica sembra portare con sè in dote od anche semplicemente evocare.
Vorremmo aprire la questione con una citazione “ambivalente” di Italo Calvino:
“L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa è Perseo, che vola coi sandali alati (…). Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. (…) Ma il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario.” (1)
C’interessa indagare il tema della leggerezza attraverso due “fuochi concettuali” inscrivibili nel lavoro teorico che stiamo svolgendo da qualche tempo legati all’obiettivo di riconoscimento, riabilitazione e attualizzazione dell’architettura di pietra.
Il primo è legato alla “leggerezza fisica” della pietra quale accezione d’impiego – in senso disciplinare, architettonico – registrabile nel reale storico o contemporaneo, capace di far “librare”, “volteggiare” la materia affrancandola dal peso, dalla corposità strutturale e dalla forza di gravità che, più generalmente, la riconduce e la salda al terreno. Ma anche alla leggerezza – indicibile, al momento – associabile alle innovazioni a venire capaci di “smuovere”, “evolvere” la pietra all’interno di un tessuto intellettuale privo di vincoli e di preconcetti, in uno spazio del “possibile” dove si può tentare di rovesciare la pesantezza della materia nel suo contrario, per dirla con Calvino.
Il secondo fuoco tematico si lega invece, metaforicamente, alla “leggerezza comunicativa” della pietra, posta in associazione rispetto alle altre due caratteristiche peculiari del nostro presente globalizzato e della nuova economia “priva di peso”: la rapidità e la visibilità. Insieme – leggerezza, rapidità visibilità comunicativa – possono far viaggiare, con grande velocità e pervasività, la materia che diventa idea privata del suo peso. L’immagine leggera che anticipa la materia pesante.


Campionario di pietre colorate. (Reale Laboratorio delle pietre dure di Napoli)

Pietre “coloriche” (o della “leggerezza dei colori litici”)
Se il retaggio più diffuso e convenzionale che la pietra porta con sè è quello che la vede legata al tema della massa e dell’indistruttibilità (a cui viene associata la lunga durata, se non l’eternità) è bene precisare come tale eredità non ne chiude completamente in un circolo i modi di impiego, la sua stessa fortuna nella lunghissima storia applicativa all’interno della storia dell’architettura.
Alla ciclopicità litica del mondo egizio e alla perfezione della costruzione stereotomica dell’architettura marmorizzata greca, segue con i Romani l’inebriante leggerezza dell’illusionismo policromatico dell’opus sectile e dei mosaici parietali. Nella Roma imperiale i materiali litici si assottigliano, si distendono in forma di “membrane”, di superfici di qualche centimetro di spessore (non infrequentemente anche al di sotto di un solo centimetro); la pietra smette di ostentare massività e portanza strutturale per parlare invece di valori ottici, di illusività, soprattutto attraverso la forza seduttiva dei colori.
L’uso inedito delle pietre da parte di Romani avviene sia nei rivestimenti in opus sectile sia nei mosaici parietali posti entrambi ad alimentare – come avverte Sergio Bettini – una concezione rivoluzionaria dello spazio architettonico d’interni che diventa scenografico, monumentale, “smaterializzato”:
“Ma è la decorazione a mosaico in se stessa, con la sua particolare sintassi anche figurativa, che non può originarsi dalla tradizione greca, anzi presuppone, necessariamente, un completo rivolgimento di tutta la concezione greca dello spazio e della forma. Poichè la decorazione musiva, s’è visto, si determina come ultimo e più maturo e coerente risultato della trasformazione delle pareti in superfici di valore cromatico; e tale ultima trasformazione può avvenire soltanto nell’ambito di una tradizione architettonica, la quale si sia distaccata dal sistema trilitico greco, o da quello peristilio ellenistico, ed abbia trasferito, appunto, sulla parete integralmente chiusa anche in alto per mezzo della cupola, l’intera responsabilità della definizione degli spazi interni. Cioè la tradizione romana. La quale, quando riduce cotesta parete, per rispondere al nuovo senso dello spazio, ad un illusivo diaframma di colore, non soltanto è condotta a ricercare nelle rivestiture marmoree e nelle decorazioni a mosaico un più ricco effetto cromatico, ma poichè tale ricerca risponde al bisogno di dare alla parete un significato di spazialità immateriale, porta necessariamente a ridurre le stesse “figure” superfici cromatiche senza spessore, con l’identico procedimento che, s’è visto, trasforma gli antichi capitelli plastici in preziose macchie cromatiche fuse nell’illimitato spazio. È dunque un nuovo linguaggio, antitetico a quello plastico dell’antica Grecia che si viene maturando a Roma, ed è questo, che viene accolto da Bisanzio.” (2)
Per i Romani – all’interno dello sconfinato universo delle pietre – i graniti, i porfidi, i marmi, le tante altre rocce lucidabili, gli alabastri, gli onici, hanno rappresentato “pietre particolari” capaci di declinare (oltre l’atto costruttivo) valenze squisitamente illusive, inebrianti in base al loro spiccato valore determinato dal disegno, dal colore, dalla lucentezza del “polimento” o (come preciseremo in un prossimo post) dalla magia della traslucenza.
Le pietre, a partire dall’esperienza romana, si sono prestate con continuità e generosità alla tematica del colore per le infinite particolarità ed assetti costitutivi di cui sono testimoni. Dell’incantesimo seduttivo dei colori, di questa “essenza non formale” (o, forse, “forma stessa” – della materia litica) hanno parlato in molti.
Da sempre – nelle affermazioni dei naturalisti, degli scrittori, degli esteti, degli storirici dell’arte – le pietre sono state collegate ai concetti di admiratio e di varietas. Il concetto di admiratio riteniamo sia da legarsi al mondo litico in generale: alle sue pietre particolarissime e rare, a quelle impiegate nelle fabbriche architettoniche con i loro svariatissimi colori che ne fissano, in una leggiadra “seconda natura”, la loro presenza.


Horti Lamiani: alabastri d’età imperiale. Palazzo dei Conservatori a Roma

Un omaggio ai piaceri intensi ed istantanei che le pietre sanno suscitare; pietre disegnate da grandi macchie e inclusioni minerali; onici flessuosi e traslucidi; graniti “puntinati” saturi ed intensi; marmi candidi, aurei, lividi, purpurei, ultramarini, attraversati da venature che portano altra linfa colorica “arricchente”.
Si apprezzano, allora, le pietre e i marmi colorati in sè, assunti come materia_superficie.
Ma in tutti questi casi il medium affabulativo del colore della materia – ci chiediamo – è inscrivibile nella categoria del pesante o del leggero ? Il colore sostanzia o contraddice il peso che vogliamo ad ogni costo leggere nella pietra ?
Le categorie di fulgor e splendor sono state sempre connesse alle pietre preziose, alle gemme che brillano di una luce che sembra essere prodotta da esse stesse; ma tali categorie possono indirettamente essere estese anche al mondo delle superfici litiche rilucenti di colore dell’architettura. Nelle redazioni pavimentali, nei rivestimenti parietali, nei diaframmi litici opalescenti, il “polimento” delle superfici ha sempre puntato ad esaltare, ad intensificare i caratteri brillanti, lo “scintillio”, la luminosità dei colori incapsulati nella materia in attesa di una nascita. Solo allora i colori dell’universo litologico diventano vivi e attivi; la lucentezza che li porta all’evidenza massima – con i relativi effetti in forma di “specchiature”, di “vortici”, di “riverberi” – parla di bidimensionalità, conferisce una vita autonoma e una “leggerezza” seduttiva alle superfici.


Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe (foto: Alessandra Acocella)

A distanza di circa duemila anni dall’introduzione delle incrostazioni marmorizzate e dei mosaici – sotto una diversa sintassi architettonica – Mies van der Rohe, nel Padiglione di Barcellona suo massimo capolavoro della stagione europea, plasma uno spazio cinetico che sembra essere perfettamente interpretabile attraverso le categorie (i valori) di Pietro Zennaro: fuggevole, temporaneo, incerto, leggero, rarefatto. A formalizzarlo vi sono setti verticali e superfici orizzontali litiche: di marmo verde greco, di onice, di travertino.
Argomentiamo, allora, che la leggerezza è qualità (valore) in disponibilità della pietra, riguardata – in questa prima parte del nostro intervento alla discussione – attraverso il tema del colore. E questo al passato e al contemporaneo.

Alfonso Acocella

(1) Italo Calvino, “Leggerezza” p. 8, in Lezioni americane, Milano, Mondadori, 1993 (Ed. or. 1988), pp. 141
(2) Sergio Bettini, “L’architettura bizantina” p. 55 in Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio, Bari, Dedalo, 1990 (ed. or. 1978), pp. 149.

commenti ( 6 )

22 Gennaio 2006, 23:42

damiano

Lo dovevo immaginare: è tutta colpa dei Romani!
Chi ha trasformato la materia in cromatismo, l’irripetibilità in ostentazione, la rarità in compiacimento, sono loro, hanno cominciato i Romani.
Mi prudono i polpastrelli ma mi trattengo, in attesa della seconda parte del dell’intervento….

25 Gennaio 2006, 23:21

alfonso acocella

Abbiamo così visto i colori "filtrare"" e poi "inondare" il mondo dell’architettura d’interni della koinè ellenistico-romana; da qui – da molto lontano – abbiamo preso le mosse per ricongiungerci, solo in un secondo momento, al presente, al nostro mondo contemporaneo.

26 Gennaio 2006, 10:33

Maria Antonietta Esposito

Ho trovato così sottilmente stimolante la posizione di Pietro Zennaro, per questo quindi tanto più efficace in questa sede, che non ho resistito alla tentazione di intervenire in questo raffinato giuoco di ruolo a carattere intellettuale offerto dal blog.
Tuttavia la prima cosa che devo dire è che sono assolutamente d’accordo con la sua idea che "l’architettura sia tale solo quando è capace di rappresentare il proprio tempo. " Allora devo esprimere la mia idea, anzi un’ossessione che mi impedisce di mettere realmente mano al Progetto: viviamo in un tempo privo di connotazione architettonica perchè io non vedo una Architettura capace di rappresentare la complessità che oggi lo caratterizza.

Ogni architettura sembra possibile, ogni linguaggio sembra eleggibile, ogni tecnologia sembra disponibile sul mercato.
La globalizzazione domina le dinamiche più forti, quelle in grado di esprimere i simboli architettonici: il potere del mercato globale è nelle mani dei consumatori che esercitano una pressione perchè sia disponibile una gamma di prodotti sempre più vasta a prezzi sempre più bassi.
Tali simboli sono oggi reificati-deificati nei templi del consumo, ieri nei templi dell’industria, in passato nei templi delle religioni. Ad esempio: fabbriche-luogo dello scambio commerciale, mai peraltro considerate dall’Alta Architettura, divorano lo scarso territorio italiano, il già troppo densamente antropizzato territorio Europeo, imitando dissennati modelli insediativi che hanno trasformato rapidamente, in meno di trent’anni, ampie porzioni dei territori americani da natura selvaggia in luoghi del vorace consumo di massa prima e di desolato abbandono e depositi per montagne di rifiuti dello stesso consumo poi. Con la crisi dei centri commerciali nel 1990, si è registrato il collasso del 50% delle presenze nei mall rispetto al 1980.

Pietro Zennaro osserva ancora che "il nostro tempo, dominato dalla tecnica, dall’informazione, dalla comunicazione istantanea, dall’immagine, ecc. richiede materiali e strumenti effimeri, o quantomeno a durata limitata, perchè la nostra è anche l’epoca del cambiamento repentino, della fluidità, dell’instabilità." Come non essere d’accordo?
Non possiamo non renderci conto che Internet mette a disposizione di qualsiasi cliente una gamma di opzioni su scala mondiale: viviamo una realtà interconnessa in cui tutto è praticamente disponibile ovunque. Allora ci potremmo domandare perchè porsi il problema della durata, visto che per ora Internet assorbe il 20% della domanda globale, ma guadagna posizioni velocissima, e vengono fatte previsioni al 2010 per cui il 75% delle transazioni commerciali saranno operate in luoghi non commerciali, come i servizi on line, mailing diretto, cataloghi, numeri verdi, ecc: ormai sembra che persino il bisogno di costruire templi commerciali stia declinando, eserciteremo il nostro potere di produttori-consumatori da casa, e l’ Architettura poi, sopravvivrà?

Sembra d’altro canto, come per esorcizzare l’estinzione dell’Architettura, che quando i grandi progetti prendono forma diventino complicati e iperrealisti, persino grotteschi, per riuscire a figurare nell’immaginario collettivo, ormai dominato dai media, la complessità della post-modernità la quale non ha più un’immagine architettonica, ma che ne assume parassitariamente un’altra, temporanea e simbolica, come ad esempio quella del veicolo futuristicamente veloce: l’aereo. Perifrasi dell’abbattimento delle distanze reali data soprattutto dalla virtualità.
Le tecnologie dell’Architettura sono scelte, anch’esse, di conseguenza sul mercato globale e un’opera può avere diverse produzioni, in siti separati, controllati da imprese diverse.
Le Tecnologie dell’Architettura contemporanea sembrano scelte sulla base di requisiti contrari alle leggi dell’Architettura stessa: per la leggerezza invece che per la massa, perchè si torcono come fogli di plastica, invece che per la planarità, per la resistenza al vento invece che ai secoli, perchè si comportano in modo iperstatico invece che statico, ecc.
Ma la pietra non scompare dalla gamma dei materiali, al contrario, invece, accetta proprio la sfida di "competere con quelli che nascono da asettiche fabbriche automatiche, generati da processi chimico-fisici in tempi definiti nemmeno tanto lunghi, che possono essere impiegati e/o formati più volte, laddove l’operatore indossa una "tuta bianca" come dice Pietro Zennaro. Direi piuttosto però che gli operatori indossino la tuta del free climber…Come a Bilbao, per costruire un museo che "vende l’immagine della città" e quindi sembra, giustamente, un centro commerciale, dove la pietra è accostata al titanio ed al vetro, ed è scelta per la sua densità e bassa porosità a per la capacità di resistere ad una pressione del vento di 200Kg/cm2, che i modelli virtuali prevedevano intrufolarsi vorticoso tra canyon creati dai contorti corpi di fabbrica. Qui la pietra riesce a diventare una parete curva come solo un materiale high-tech può fare e, proprio attraverso l’innovazione del processo di progettazione-costruzione: qui questo materiale "eterno", sembra trovare un esito contemporaneo almeno nella complessità della forma.

Tuttavia io penso che la contemporaneità della pietra non sia esemplificata solo da nuove possibilità formali che può continuare ad esprimere, data la evidente ricchezza delle opzioni naturali di partenza disponibili, bensì, soprattutto, da una cultura tecnologica del progetto in divenire capace di "definire processi di progettazione costruzione ad-hoc" basati sulle tecnologie dell’Informazione e comunicazione che, grazie alla sua aumentata capacità di trattare efficacemente i dati in entrata e di verificarne ex ante ed in itinere assicuri i risultati attesi.
In questo scenario le tecnologie dell’Architettura sono anch’esse progettabili ed elemento sempre più determinante per raggiungere gli obiettivi del progetto.

27 Gennaio 2006, 15:14

damiano

"Il problema dell’architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane […]: ma di creare di sana pianta la casa nuova, costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica[…], determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, una architettura che abbia la sua ragion d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità.
[…] il viaggio cosmopolita, lo spirito della democrazia e il decadimento della religione hanno reso completamente inutili i grandi edifici, permanenti e decorati, un tempo usati per esprimere autorità regale, teocrazia e misticismo[…]. L’uguaglianza di fronte alla legge, l’autorità delle masse, la forza invadente della folla, la velocità nelle comunicazioni internazionali e le abitudini dell’igiene e del benessere richiedono invece grandi case d’abitazione ben ventilate, ferrovie di assoluta affidabilità, gallerie, ponti di ferro, navi di linea grandi e veloci, immense sale da congressi e bagni progettati perla rapida cura quotidiana del corpo.
[…] i materiali moderni di costruzione e le nostre nozioni scientifiche, non si prestano assolutamente alla disciplina degli stili storici.
[…] le case dovranno durare meno di noi […] ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città."
Antonio Sant’Elia, ne "Il Messaggio" e ne "il Manifesto dell’architettura futurista", luglio 1914

27 Gennaio 2006, 16:00

Alberto Ferraresi

Riesco a lasciare solo un appunto veloce ai contenuti ricchi dei due ultimi post ed ai commenti, condividendo con l’ultimo intervento le possibilità d’accezione ampia dei caratteri di trasparenza e leggerezza, ad abbracciare l’atteggiamento del progettista quanto alle strategie di controllo delle tecnologie ed alle scelte materiche. Questo anche può essere sufficiente, credo, alla connotazione contemporanea dell’intervento, posto che sulla veste finale delle opere d’architettura incidono vincoli di molteplici derivazioni disciplinari; certamente l’identità di carattere fra materia e strategia di scelta materica permette la maggiore linearità di lettura ed offre maggiore emblematicità ai fini della ricerca sul contemporaneo. Riprendendo in sintesi il tema che è stato citato della progettabilità delle tecnologie, anzichè focalizzare solo sulla materia, per domandarne la vostra opinione.

29 Gennaio 2006, 22:26

alfonso acocella

Intervengo nella discussione in corso – in attesa di editare a breve il terzo post inerente il tema ambivalente pesantezza_leggerezza della pietra che verrà traguardato attraverso il concetto di "rarefazione materica" – non tanto (o, quantomeno, non ancora) sugli interessanti spunti disciplinari posti dai vari commenti, bensì per sottoporre una riflessione sul senso più generale della iniziativa di editazione istantanea consentita dal blog.
Questo per iniziare a riflettere su un aspetto, su quel "raffinato giuoco di ruolo a carattere intellettuale offerto dal blog", così come suggerisce (stimolandoci all’intervento) Maria Antonietta Esposito.
Ci interessa sottolineare – ora che la comunità in rete inizia a formarsi – come l’impegno che stiamo profondendo nel lanciare il progetto digitale vada a rendere evidente la direzione del percorso intrapreso. Un percorso che cerca di tenere insieme ed evolvere due progetti culturali, di diversa ma integrata e collaborativa natura.
Da una parte l’approfondimento della varietas di una materia dell’architettura e del suo Stile di costruzione sottoposti ad un processo indagativo (se non "indiziario", nella dialettica dei valori o dei non-valori attribuiti) filtrato attraverso la cultura tecnomorfologica del progetto di architettura, dall’altra l’evoluzione produttiva e riverberativa (ovvero "comunicativa") di contenuti in modalità editativa e fruitiva di tipo innovativo.
Stiamo – non so se per tutti coscientemente – nel blog a produrre e posizionare contenuti individuali on line; ma anche a condividerli collegialmente fra i vari autori e numerossissimi lettori.
Ecco allora che si precisano i due livelli del "giuoco abilitante" offerto dal blog.

Il primo livello è individuale. Attiene ai contributi delle singole persone che partecipano attivamente alla produzione libera, aperta, senza filtro, dei contenuti del blog. In questo livello ogni autore mantiene la sua autonomia e l’attribuzione-controllo delle formulazioni avanzate.
Le idee, i convincimenti, le posizioni, dei partecipanti si sedimentano in forma autobiografica offrendosi come punto potenziale di discussione. In questo caso specifico, evolviamo noi tuti – singolarmente – il tema della "leggerezza della pietra", ma anche altri temi tangenziali. Personalmente sto tentando di esplicitare il ruolo sinergico delle individualità e dei "valori condivisi" posti alla base la strategia del blog.

Il secondo livello è quello collettivo, della comunità. In questo livello convergono i contenuti (e quindi i valori) in forma cooperativa, di intelligenza collettiva.
"Chi possiede la saggezza della folla ? La folla stessa" volendo riproporre la felice metafora di Jeff Jarvis, blogger di buzzmachine.com.
I partecipanti attivi nel blog, stratificando uno sull’altro nuovi contenuti, producono valore crescente che si accumula nel tempo in archivio (in un "progetto") comune. I contributi individuali visti nell’insieme ricadono con i loro "benefici" sui partecipanti al "raffinato giuoco" del blog, di cui parlava Maria Antonietta Esposito.
Nel secondo livello del blog si capitalizza il valore culturale del progetto digitale che passa dal "virtuale" (nel senso di "cio che esiste in potenza") alla "attualizzazione" come "creazione, invenzione di una forma a partire da una configurazione dinamica di forze e di finalità", per dirla con Pierre Lèvy (Il virtuale, 1997, tit.or. Qu’est-ce que le virtuel?, 1996).
Questo valore non può che appartenere alla comunità che lo produce insieme; i partecipanti vivono le "interazioni produttive" di contenuti come un "giuoco" in cui ciascuno guadagna. Nessuno perde.
È questo che stiamo facendo. L’invito è a proseguire l’esperimento.

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