16 Ottobre 2007
Aziende Opere di Architettura Produzione e cultura di prodotto Toscana
SOFT-STONE. Fluttuanti spazi dedalici
Lo Stone Pavillon di Kengo Kuma per Il Casone al Marmomacc 2007
Michelangelo Merisi detto Il Caravaggio: Narciso (1594-1596). Roma, Galleria nazionale d’arte antica
Il progetto è un viaggio, un’avventura. È come attraversare un confine sconosciuto avendo cura di dare coerenza alle scelte, ai movimenti, alle azioni. Il confine come condizione esistenziale entro cui si sviluppa l’azione prefigurata, finisce con assumere i caratteri di territorio liminare, luogo in cui diverse razionalità ed emozionalità agiscono, simultaneamente, secondo azioni dialetticamente orientate. Perchè è evidente che “le tecniche esecutive si presentano al fatto architettonico portatrici di quella struttura consistente dell’artefatto che non può essere disattesa, pena lo svuotamento, la banalizzazione dello stesso atto progettuale e creativo (…). La forma non ha mai un’assoluta libertà in quanto esiste, è pensata, manipolata, costretta ad esprimersi sempre a partire dalla natura della materia che la sostanzia”1
Ed è proprio alla materia e alle sue possibilità che vorrei ricondurre la “lettura” del Padiglione progettato da Kengo Kuma per Il Casone a Marmomacc. Se i materiali sono portatori di senso, di costruttività, di nessi combinatori, il lavoro architettonico compiuto da Kuma lo si può leggere proprio come un lavoro “sui materiali, a partire dai materiali”.
Kengo Kuma & Associates, Stone Pavillion, Marmomacc, 2007
Nella sua configurazione il Padiglione è riconducibile a tre elementi fondanti: il pavimento galleggiante; il suolo labirinto; il celino specchiante.
Il piano di calpestio, una superficie litica vibrante di forma rettangolare allungata (13.0 m x 8.02 m), sviluppa una superficie di 104,26 mq ed è soprelevato di 20 cm circa. Composto da 900 lastre di pietra arenaria, della varietà ‘giallo etrusco’, il pavimento galleggiante è stato determinato, oltre che dalla necessità di integrare agevolmente l’impiantistica, dalla necessità di inglobare sotto il piano la fondazione continua del muro labirinto. La struttura del piano è formata da più livelli. Il primo, formato da pannelli di legno multistrato spessi 4 cm, è fissato su “piedi” d’acciaio regolabili, soluzione che agevola il controllo della complanarità. Sopra questo primo impalcato ne è disposto, sfalsandone opportunamente i giunti, un secondo realizzato con pannelli multistrato da 2 cm, sui quali sono fissati con silicone strutturale le lastre di pietra della pavimentazione. Gli elementi litici pavimentali, montati “a casellario, sono spessi 4 cm ed hanno una forma triangolare: base di cm 49,7 per altrettanti cm di altezza. Un giunto di 2 mm, a vista, separa lungo i tre lati lastre contigue.
In corrispondenza del muro labirinto gli elementi litici pavimentali sono realizzati con lastre di pietra serena larghe 23 cm e spesse 1,5 cm. Questa soluzione ha l’obiettivo di accentuare l’effetto di “galleggiamento” del muro, in ragione della diversa reazione della pietra alla luce. La varietà di pietra utilizzata, la grana, la geometria degli elementi, la tecnica con cui è stata lavorata, propone, per “assonanza”, una continuità con la struttura in elevazione, con la tessitura a maglia triangolare. Il piano di calpestio è chiuso lungo il bordo da blocchi di pietra massiccia, che accolgono le lastre perimetrali entro apposite cavità. Le 900 lastre che configurano il piano sono state realizzate tutte con un processo di produzione artigianale, pezzo per pezzo. Questa scelta più che da necessità tecniche è derivata dalla volontà di “imprimere” sulla materia i segni del processo di trasformazione manuale. Superficialmente le lastre sono state levigate, lasciando in evidenza le piccole “imperfezioni”, mentre lungo i tre lati è stata realizzata una bisellatura a mano.
Kengo Kuma & Associates, Stone Pavillion, Marmomacc, 2007
In continuità con l’idea di labirinto, che alimenta un’ambigua percezione dello spazio “sfondato”, il “celino specchiante” produce un’ingannevole duplicazione dello spazio attraverso un artificio tecnico. Il soffitto a specchio è costituito da un pannello sandwich di circa 3 cm di spessore, su cui è disposta una pellicola di poliestere metallizzato. Tale pellicola ha qualità ottiche riflettenti in ragione anche del suo esiguo spessore (25 micron); qualità che si somma alle caratteristiche di sicurezza (prodotto ignifugo di classe 1), di facile manutenibilità e di riuso quasi totale dell’intero sistema. Il piano al quale è ancorata la “pellicola riflettente” è realizzato con legno multistrato, spesso 4 cm, irrigidito da una sovrastruttura di listelli di legno a sezione rettangolare di dimensioni 4 x 20 cm, disposti a maglia triangolare secondo un modulo di 120 x 120 cm. Il celino è ancorato in 15 punti ad una struttura di metallo formata da tre travi a sezione rettangolare di dimensioni 4 x 18 cm.
Nel soffitto sono integrati anche i corpi illuminanti, dislocati in corrispondenza del banco-reception e dei tavoli. I proiettori utilizzati sono del tipo ARC 1T1191 equipaggiati con lampade da 50 watt a bassa tensione, prodotti da Targetti. La soluzione con riflettori a vetro aperto è stata scelta anche per la posizione arretrata delle lampade che li caratterizza, dislocazione che garantisce una bassa luminanza. La distribuzione della luce e l’intensità massima dipendono, oltre che dalla potenza e dall’apertura di fascio, dalla bassa luminanza fornita dalla lampada alogena “dicroica”. L’effetto di luce “morbida”, calda, avvolgente, esalta le lunghe ombre, le sfumature, le tonalità cromatiche severe delle pietre. Analogamente al celino, anche nel pavimento galleggiante sono stati integrati alcuni corpi illuminanti: proiettori Exterieur Vert – Phenix equipaggiati con lampada alogena da 50 W. L’intensità della luce, degradante verso l’alto, produce alla base del muro una sorta di “sbarramento”, restituendo un effetto di “galleggiamento del muro” labirinto. La relazione/re-azione tra la materia litica” e la materia luminosa è sottolineata dalle lunghe ombre che attraversano le “aperture”, delle infinite “cavità interstiziali”.
La superficie specchiante sovrasta il muro labirinto senza mai toccarlo: 1 cm di vuoto corre lungo tutto il perimetro. Questa soluzione produce un effetto di continuità delle pareti litiche, a tratti deformate, con uno sfondamento e un’amplificazione di senso delle stesse, in ragione anche della fluttuante percezione degli elementi fisici. La realtà e il suo doppio generano un senso d’indeterminatezza, di sospensione, di fluidità. Spazio reale e spazio virtuale si con-fondono dando luogo ad una “spazialità indefinita”. Del resto il concetto di labirinto che ha governato ed orientato tutto il percorso progettuale conteneva in sè questo particolare germe. Labirinto deriva dal greco làbiros, cavità, ma esprime anche “dualità primordiale”, elemento di connessione tra microcosmo e macrocosmo, tra cielo e terra. Simbolo, porta d’accesso ad una dimensione profonda: viaggio conoscitivo dentro se stessi. Il celino specchiante, come l’immagine di Narciso riflessa sull’acqua, ci “proietta altrove”, ci svela un’identità nascosta, un’alterità, proprio come in uno “specchio
dell’anima”, il doppio si materializzata attraverso le “proiezioni d’ombra”, nella relazione che la materia vibrante intrattiene con la luce, con la sua immagine riflessa: alle pietre saldamente radicate al suolo fa da contrappunto l’ingannevole elevazione verso il cielo delle stesse. Ogni ordine sembra essere sovvertito, violato. L’immagine riflessa ci rivela, improvvisamente, l’ambigua forma della trama litica; trama mai certa, mai fissamente esplicitata. Artificiosità, stratagemma, intelligenza, ingegno, astuzia, furbizia, la tecnica tradotta in “inganno” si dà come prima formulazione di senso, logos. Alla visione diretta, univoca del mondo, Kuma preferisce una molteplicità di possibili significati, un’esperienza emotiva che attraversa ragione e passione, intuizione e sentimento, realtà ed immaginazione. Perchè “l’architettura è solo lo strumento attraverso il quale cerco di ‘rivelare’ un luogo”2.
Luigi Alini
[videointervista]08_stonepavilion.swf[/videointervista]
Vai a Kengo Kuma & Associates
Vai al sito Casone
Vai a SOFT-STONE. Origami di pietra
Vai alla Photogallery realizzata da un visitatore
Note
1 Alfonso Acocella. “Progettare in pietra. La costruzione fra tradizione ed innovazione”
2 Dichiarazione resami da Kengo Kuma durante un recente colloquio a Napoli.
caro alberto,
sono in accordo con te : il maestro Kuma come nessun altro affronta il tema della leggerezza, legandolo ad un materiale che per nascita si intende “massivo”, pesante, se non altro per una sua funzione strutturale come in questo caso.
Ma mi permetto di dissentire sul fastidio che ti provoca il fruitore dela fiera.Ancora una volta difatti il grande Kuma è riuscito sì a fare un’architettura di grande spessore , ma che accetta anche umilmente , con i suoi spazi ora invitanti , ora discreti, il lavoro quotidiano indispensabile per una azienda che si presenta in fiera.Uno spazio meraviglioso dove lavorare.Il fruitore sarà quindi anche inconsapevole di significati e gesti architettonici, ma altrettanto inconsapevolmente ne rimane conquistato.
Vedo che i commenti e il confronto partono in fretta. Intanto aspetto con piacere altri commentatori, portandomi su Piazzale Michelangelo a gustare un buon sigaro Toscano e a rimirar dall’alto la Citta di Pietra. A presto…
Cosa succede quando incontriamo un’architettura? Qual è la sensazione che immediatamente ci coglie nel rapportarci con il costruito?
Prima di organizzare un viaggio o una semplice visita ad una opera architettonica analizziamo comunemente disegni, rendering, materiale fotografico; consultiamo la bibliografia di riferimento, arriviamo insomma con una certa preparazione, soprattutto immaginiamo l’opera e, ancor prima di vederla, ne percorriamo mentalmente gli spazi, immaginiamo scorci e prospettive.
Nell’atto poi creativo riusciamo ad arrivare ad una notevole livello di controllo formale e spaziale, assieme ai più consolidati strumenti del disegno e della riproduzione di modelli in scala ora abbiamo l’aiuto di formidabili software, sempre più facili da usare.
La geometria, la forma sono rappresentabili. Lo spazio, i percorsi descrivibili, l’incidenza delle fonti luminose facilmente visualizzabile.
Lo stupore subentra invece nell’incontro con la materia, lo spazio con la materia, la luce con la materia, i vuoti con la materia. L’architettura che usa la materia come sintassi del proprio linguaggio.
Potremmo a questo punto citare i grandi pensatori sull’argomento, i grandi architetti che nella storia ci hanno regalato mirabili esempi di applicazione materiche, per mio conto vorrei solo segnalare che devo questa mia riflessione all’ennesima lezione che Kengo Kuma ci ha consegnato con il padiglione espositivo de Il Casone alla fiera Marmomacc.
Opera che che mi ha segnato in maniera indelebile sulla trascendente influenza della materia nello spazio, nella forma e nella luce.
Ciao Roberto. Forse per brevità ho lasciato spazio ad interpretazione. Non volevo in realtà sostenere che l’opera di Kuma è più scultura da guardare dall’esterno che architettura da vivere ed attraversare. Volevo solo dire che in questo caso è talmente ben riuscita e talmente preziosa nei piccoli dettagli, che ai miei occhi (troppo abituati a rappresentazioni di progetto) la visione (non naturale) dell’opera nuda e senza intromissioni di alcun tipo come si vede dalle immagini a corredo del testo è, se possibile, ancora più accattivante. Ma l’opera è bellissima e lavorarci all’interno, come tu stesso mi dici, deve essere piacevolissimo. Grazie per l’opportunità del chiarimento.
Un progetto di allestimento molto interessante che, alla sapienza formale, associa un attento utilizzo dei materiali, ad un tempo contenitore e oggetto della mostra. Il progetto dimostra una conoscenza delle caratteristiche tecniche e delle prestazioni della pietra e le sfrutta con intelligenza. Il lieve senso di angoscia che il progetto trasmette rappresenta un ulteriore, inconscio risultato, che ci mette di fronte il problema dell’identità dei materiali come perifrasi della identità dei luoghi ed in definitiva della nostra identità culturale di fronte alla evoluzione dei mercati nell’era della globalizzazione.
Pareti diaframma
Abbiamo espresso altrove (e per altri materiali che dalla pietra naturale hanno, comunque, derivato assetti e logiche costruttive) concetti e riflessioni che sembrano consegnarci anche per lo Stone Pavillon di Kengo Kuma chiavi di ingresso e di interpretazione.
Proviamo, allora, con qualche elisione ed adattamento funzionale al caso, a riproporre tali ragionamenti ed osservazioni.
Le architetture contemporanee non di rado assumono, propongono, risoluzioni di involucri parietali dove il rapporto pieno-vuoto non sempre è a favore della parete continua ed omogenea.
L’involucro chiuso lascia, in questi casi, il campo alla restituzione di pareti più libere e affatto statiche e convenzionali nella fattispecie di diaframmi di separazione.
L’essere aperto o l’essere chiuso di una parete viene così sperimentato all’interno di quella ambivalente interrelazione fra condizioni di accesso e ostacolo, fra permeabilità visivo-luministica e sbarramento materico.
Fra questi due poli opposti si collocano ciò che potremmo definire “pareti diaframma” intese quali strutture di parziale chiusura verticale che impediscono l’attraversamento fisico, non necessariamente quello visivo e luministico; pareti diaframma in cui piccole e regolari fenditure spiccano come figure cave in miniatura.
La parete è intesa non più come strato di chiusura bensì come superficie traforata, ricca di tessiture e di ritmi chiaroscurali; diaframmi che individuano o suggeriscono spazi protetti e occultati, però raggiungibili in qualche modo visivamente.
Gli schermi materici discontinui (perchè di questo si tratta) possono essere intesi come strutture involucranti individuanti attraverso il loro insediarsi al suolo delle suggestive microspazialità, zone d’ombra più marcate, dilatazioni materiche caratterizzate dal ritmo pieno-vuoto in cui l’interesse per il vuoto è legato ai fenomeni cui si accompagna; in primis il gioco di luci e ombre, poi i coni prospettici che si attivano nella duplice direzionalità interno/esterno e esterno/interno attraverso quell’intrigante esperienza fruitiva rappresentata dal “guardare attraverso”.
L’effetto conseguibile dipende dalla morfologia generale delle pareti diaframma che può proporsi in piano o curva, bassa o slanciata, continua o segmentata ecc. dando vita a molteplici possibilità di avvolgere gli spazi e caratterizzarli con diverse configurazioni.
Cosi abbiamo introdotto, nella lezione odierna rivolta ai giovani studenti della Facoltà di Architettura di Ferrara, lo Stone Pavillon di Kuma evidenziando come il dispositivo della griglia triangolare in elementi di pietra serena può essere valutata come innovativa e tradizionale allo stesso tempo in quanto riguardabile come soluzione aggiornata ed attualizzata rispetto alla lunga sequenza dei motivi a diaframma che l’edilizia rurale italiana ci ha restituito a base di materiali litici e laterizi.
Abbiamo, poi, avvertito che oggi la formazione non è più chiusa entro le mura delle Facoltà, additando loro di guardare sin da subito anche fuori dell’Accademia secondo quella doppia direzionalità (esterno/interno_interno/esterno) che la stessa opera di Kuma indica.
Speriamo che il messaggio “sia passato”.
16 Ottobre 2007, 18:36
Alberto Ferraresi
Ancora una volta credo Kuma sorprenda nell’affrontare il tema della leggerezza, sostituendo alla massa una trama di materia, come fosse pietra pomice da scolpire con un temperino, al setto od al pilastro il tessuto nervoso di piatti in pietra arenaria. Il carico si stempera a terra distribuito, trasmettendosi dall’alto al basso lungo nodi minuti e lastre sottili. S’innesta così sul tema di fondo grigio, stabile, omogeneo della materia prima litica una vitalità certa che sale agli occhi rapidamente, assecondata da fasci di luce e specchio di sommità. In quest’ottica è quasi peccato la presenza all’interno dei fruitori di stand e fiera, forse inconsapevole di tutti i significati e particolarmente del gesto di progetto generante lo spazio che li comprende.