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30 Aprile 2007

Appunti di viaggio

La magia della luce

Luce
Astrazione di luci alla Triennale (foto: Alfonso Acocella)

[photogallery]zumthor_album[/photogallery]

“Di quanta luce ha bisogno l’uomo e di quanta oscurità ?”
È questo il tema annunciato per la conferenza di Peter Zumthor, organizzata da Mario Nanni di viabizzuno, domenica 22 Aprile alla Triennale di Milano nella giornata conclusiva della manifestazione internazionale del Salone del mobile.
La domanda tarderà ad avere una risposta da Zumthor che, in apertura dell’intervento, candidamente afferma di non possedere una verità così assoluta da consegnare al pubblico intervenuto.
La narrazione, dopo poche immagini sul tema della luce astrattamente inteso, devia autobiograficamente su Haldenstein e la nuova “casa per sè” da poco completata.
“Io vivo e lavoro a Haldenstein, afferma perentoriamente Zumthor; per me questa è una scelta cosciente di vita”.
Un luogo silenzioso e unico (come unici sono ancora i luoghi sopravvissuti all’omologazione degli ultimi decenni) che non ha impedito all’architetto dei Grigioni di guardare l’altrove, il mondo contemporaneo senza perdere le radici e i tratti di un radicamento insediativo capace di alimentare una interiorità emozionale e una architettura dai tratti umanizzanti e solenni alla stesso tempo.
È questa la chiave di ingresso nel messaggio che Zumthor sembra volere consegnare ai tanti architetti che sono venuti ad ascoltare in silenzio uno dei pochi veri maestri dell’architettura contemporanea.
Il tema bifronte, allora, della luce_ombra si ritrae dal piano dell’astrazione concettuale per essere svolto attraverso i passaggi, i raccordi, le prospettive architettoniche esterno/interne o interno-esterne della residenza narrata e comunicata con semplicità a chi è presente.
Non è un modo per rifuggire dalla domanda iniziale, quanto un modo per parlare del tema attraverso ciò che gli è familiare; la “sua luce”, la luce di Haldenstein, al piede dei monti quasi incombenti della regione dei Grigioni; quella luce che conosce, rispetta, scruta da tempo e che ora cerca di “incapsulare” e “far brillare” negli spazi della nuova casa.
L’abitazione è frontistante lo studio professionale (una organizzazione di lavoro artigianale: 15-20 collaboratori, poco più di una famiglia allargata) tanto che residenza e uffici ne risultano direttamente collegati.
Nella loro sequenza fluente gli spazi restituiscono la coppia antinomica luce_ombra agente in differenziazione di intensità e toni luministici rispetto ai fronti interni della nuova architettura predisposta con ritmo fortemente orizzontale a semicorte aperta.
I fusti svettanti degli alberi rappresentano i fuochi topologici privilegiati della composizione intorno a cui (e verso cui) si raccordano i volumi stereotomici: le superfici vitree, con svolgimenti continui, li aprono; i muri li richiudono alle spalle.
La pietra non è assente, la aspettavamo da qualche parte e Zumthor non ci delude consegnando, inaspettatamente, un omaggio alle Pietre d’Italia. Fa capolino, ad un certo punto, la Pietra serena, la pietra che rese famosa la Firenze di Brunelleschi, qui posta con il suo tono severo e plumbeo a dare continuità al suolo della residenza.

pianta
sezione
Casa Zumthor a Haldenstein. Pianta e sezione.

Il viaggio verso Milano, per incontrare Peter Zumthor e Mario Nanni, fa riemergere altri ricordi, altre forti emozioni, “altri viaggi” i cui protagonisti però rimangono gli stessi.
Nel 2003, in occasione del Decennale della Fondazione della Facoltà di Architettrura di Ferrara, il conferimento della Laurea Honoris Causa a Peter Zumthor ci lasciava in dote una magistrale Lectio Doctoralis scritta appositamente per l’occasione.
In velocità, recuperando il testo dall’archivio XFAF, decidiamo di trasmetterlo elettronicamente e di condividerlo insieme anche perchè ci parla mirabilmente delle “tante magie” care a Zumthor, compresa la magia della luce per la quale ci eravamo mossi alla volta di Milano. I due viaggi così, almeno idealmente, si ricongiungono.

Alfonso Acocella

***

“La magia del reale”

“Esiste la magia della musica. Inizia la sonata,
una prima linea melodica in calando della viola,
poi inizia il piano, e già essa si fa sentire: la commozione;
l’atmosfera fatta di suoni, che mi avvolge e mi tocca,
che mi mette in un particolare stato d’animo.

Esiste la magia della pittura e della poesia,
del film, delle parole e delle immagini,
esiste l’incanto delle idee brillanti.
Ed esiste la magia del reale, del materiale, del corporeo,
delle cose che mi circondano, che vedo e tocco, che respiro e sento.
Talvolta, in determinati momenti, questa sensazione di incanto,
che mi provoca la vista di un determinato scenario architettonico o paesaggistico,
di un certo ambiente, scaturisce all’improvviso,
come una lenta espansione dell’anima, che dapprima non avverto nemmeno.

È giovedì santo. Sono seduto nella lunga loggia della Tuchhalle.
Davanti a me il panorama della piazza con le facciate delle case, la chiesa e i monumenti.
Il caffè alle mie spalle. La giusta quantità di gente.
Un mercato dei fiori. Il sole.
Sono le undici del mattino. Il lato opposto della piazza
è all’ombra, risulta di un gradevole colore azzurrognolo. Rumori meravigliosi:
conversazioni vicine, passi sulla piazza lastricata in pietra,
uccelli- questi abitanti dell’aria,
un debole mormorio della folla (niente macchine, niente motori roboanti),
a tratti in lontananza rumori di cantieri.
Le imminenti giornate festive sembrano già aver rallentato il passo delle persone.
Due suore attraversano la piazza gesticolando animatamente;
il passo leggero fa svolazzare i loro veli nel vento.
Ognuna ha in mano una borsa di plastica.
La temperatura è piacevolmente fresca e calda al contempo.
Sono seduto su un sofà imbottito, di velluto verde pallido.
La statua di bronzo sull’alto basamento davanti a me nella
piazza mi volge le spalle e guarda, come me, verso la chiesa con le due torri.
Le due torri della chiesa hanno le cupole diverse, in basso sono uguali, poi,
salendo, si distinguono sempre di più l’una dall’altra.
Una è più alta e porta una corona d’oro sulla sommità della cupola.
Tra poco, da destra, mi raggiungerà B., attraversando la piazza in diagonale.

Queste le parole che annotai allora nel mio taccuino
per descrivere l’atmosfera della piazza,
perchè tutto quello che vedevo mi piaceva veramente tanto.
Oggi, rileggendole, mi chiedo, cos’è che mi ha toccato così fortemente allora?

Tutto! Tutto, le cose, le persone,
la qualità dell’aria, la luce, i rumori, i suoni e i colori.
Presenze materiali, strutture, e forme. Forme che riesco a comprendere.
Forme che posso cercare di leggere.
Forme, che trovo belle.

Ma, allora,
oltre a tutte queste presenze materiali, oltre alle cose e alle persone,
non c’era anche qualcos’altro che mi toccava-
qualcosa che riguardava solo me, il mio
stato d’animo, i miei sentimenti, le mie aspettative del momento in cui ero seduto lì?
“The beauty lies in the eyes of the beholder”-
questa è la frase che mi viene in mente in questo momento.
Vuol forse dire, questa frase, che tutto quello che
provai allora era solamente o prevalentemente espressione e frutto del mio
stato d’animo, del mio umore?
La mia esperienza di allora, forse, era solo in minima parte
riconducibile alla piazza e all’atmosfera che in essa regnava?
Per rispondere a questa mia domanda faccio un semplice esperimento:
immagino che la piazza scompaia, e già le mie sensazioni
legate alla situazione di allora iniziano a scemare,
rischiano di svanire.
Noto che senza l’atmosfera di questa piazza
non avrei mai provato tali emozioni.
Ora lo avverto nuovamente: c’è un’interazione tra le nostre sensazioni
e le cose che ci circondano. È un fenomeno con cui mi confronto in quanto architetto.
Io lavoro sulle forme, sulle fisionomie, sulle presenze materiali che costituiscono
il nostro ambiente. Con il mio lavoro contribuisco a creare i tratti tangibili,
le entità fisiche dello spazio, che innescano le nostre emozioni.

La magia del reale è per me quell’alchimia che trasforma le
sostanze materiali in sensazioni umane, quel momento particolare
di appropriazione emotiva o di trasformazione della materia
e della forma presenti nello spazio architettonico.

In quanto architetto posso far funzionare una casa di villeggiatura,
un edificio commerciale o un aeroporto. Posso costruire
appartamenti ben strutturati a prezzi accessibili, posso
progettare teatri, musei d’arte o showroom che facciano parlare di sè,
posso dotare le mie costruzioni di forme che soddisfino l’esigenza
di innovazione o di originalità, di rappresentatività o di particolari stili di vita.

Fare tutto questo non è così semplice. C’è bisogno
di lavoro. E di talento. E ancora di lavoro. Ma le mie aspettative
nei confronti di un’opera architettonica ben riuscita, frutto di quei particolari momenti
di esperienza architettonica individuale, vanno oltre queste considerazioni e mi inducono a chiedermi:
sono in grado io, architetto, di progettare anche l’effetto reale di un’opera architettonica,
quell’intensità e quell’atmosfera uniche, quella sensazione di presente, di benessere,
di pertinenza, di bellezza? È possibile progettare quel quid che costituisce,
in un determinato momento, la magia del reale,
il cui turbine mi fa sperimentare e cogliere qualcosa che altrimenti non coglierei
con la stessa intensità?

Ci sono edifici o complessi edilizi piccoli e grandi, imponenti e importanti,
che mi fanno sentire piccolo, che mi opprimono, che mi escludono,
mi respingono. Ma ci sono anche edifici o complessi,
piccoli o enormi, nei quali mi sento bene,
che mi rendono bello, che mi trasmettono una sensazione di dignità e libertà,
nei quali mi trattengo volentieri, che uso volentieri.
Queste opere sono la mia passione.

Così, nel mio lavoro cerco di concepire, e, di conseguenza,
di costruire, i miei edifici come corpi:
come anatomia e pelle, come massa,
membrana, come stoffa o involucro,
tela, velluto, seta e acciaio scintillante.

Mi curo di accostare bene i materiali e di esaltarli,
prendo una certa quantità di legno di rovere, un po’ di tufo
e vi aggiungo ancora qualcosa:
tre grammi d’argento, una maniglia da girare,
superfici di vetro scintillante, di modo che
ogni composizione di materiali diventi un unicum.

Sto attento all’acustica dell’ambiente,
alla sonorità di materiali e superfici
e al silenzio, come presupposto dell’ascolto.

La temperatura dell’ambiente è importante per me,
il fresco e le gradazioni del calore che accarezzano il corpo.

Penso agli oggetti personali che le persone
dispongono tutt’intorno a sè in certi spazi
per lavorare, per sentirsi a casa, e per i quali io individuo
l’idonea collocazione e per i quali predispongo lo spazio.

Mi piace l’idea di disporre le strutture interne dei miei edifici
in maniera tale da lasciare che le sequenze di spazi ci guidino,
ci conducano, ma anche che ci lascino liberi e ci seducano.
L’architettura come arte dello spazio e del tempo tra
tranquillità e seduzione.

Cerco di rappresentare attentamente la tensione tra
interno ed esterno, sfera pubblica e intimità,
dedico attenzione alle soglie, ai passaggi e ai confini.

Ed il gioco con il metro dell’architettura,
il lavoro sulle giuste dimensioni delle cose,
è guidato dal desiderio di ottenere diversi gradi di intimità,
varie sfumature di vicinanza e distanza, e per me è un piacere far illuminare
dal sole materiali lucidi e opachi, superfici e spigoli,
e creare masse profonde e gradazioni d’ombra e oscurità,
con tutta la loro carica misteriosa, al fine di enfatizzare
la magia della luce sulle cose. Fino a quando non risulta tutto alla perfezione. ”
(P. Z. Haldenstein, 08 dicembre 2003)

Peter Zumthor “La magia del reale”

Lectio Doctoralis,
tenuta il 10 dicembre 2003
in occasione del conferimento della
Laurea honoris causa in Architettura
dall’Università degli Studi di Ferrara, Facoltà di
Architettura

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