15 Marzo 2007
Interviste
Memorie di un architetto col mal d’Africa.
Fabrizio Caròla a colloquio con Luigi Alini
‘Volevo una vita vera
e l’ho avuta.
Ho avuto molto e ora
sento il bisogno di restituire’
Fabrizio Caròla, da circa trent’anni col suo ostinato lavoro di architetto-costruttore è impegnato a sostenere l’efficacia di un modello costruttivo fondato sul recupero di elementi della tradizione mediterranea: archi, volte, cupole; lo fa a partire dalle origini, dando corpo e significato ad un’idea di architettura come spazio primario, un’ostinazione che lo ha portato a trascorrere gran parte della sua vita in Africa.
Architetto napoletano formatosi alla Scuola Nazionale Superiore d’Architettura di Bruxelles, quella fondata da Van de Velde. “A 18 anni sono andato via da casa, sono andato in Belgio dove, nel 1956, ho preso la laurea alla Scuola superiore di Architettura “La Cambre”. Nel 1972 sono andato in Africa, (…) ho trovato un architetto che mi ha offerto di lavorare con lui ad Agadir, in Marocco, per la costruzione dell’ospedale”.
Il percorso formativo all’interno di una scuola che aveva un’impostazione analoga a quella della Bauhaus, Van de Velde era stato membro della Bauhaus, lo porta a prediligere un approccio ‘concreto’ all’architettura. Materia, struttura e forma sono i presupposti del suo agire, che e sempre ancorato al ‘fare’, alla ‘concretezza del costruire’.
La sua ‘natura nomadica’ e la vocazione alla ricerca sperimentale lo spingono verso nuovi ‘orizzonti’, nuovi scenari: inizia un ‘percorso’ di ricerca che dall’Italia, a partire dal 1972, si sviluppa prevalentemente in Africa, in particolare nel Malì, dove ancora oggi, a distanza di 35 anni, è impegnato professionalmente. In Africa avviene l’incontro con le tecniche ed i materiali della tradizione, in particolare con le cupole di derivazione nubiana realizzate con l’ausilio del ‘compasso ligneo’. In Africa, per conto di organizzazioni non governative, Caròla conduce una serie di ricerche sull’abitare, sull’edilizia scolastica, sulle tecniche costruttive tradizionali. La sua attenzione è rivolta prevalentemente alle relazioni tra materia e luogo. Indaga il ‘luogo’ nella sua ‘fisicità materica’. L’architettura spontanea, l’architettura senza architetti costituisce uno dei suoi riferimenti privilegiati: agendo sui significati che entrano nella ‘costruzione delle forme’ Caròla mette a fuoco un repertorio di soluzioni, di segni, che ricorrono all’interno del continuo divenire della tradizione.
Con l’ADAUA, agenzia di cooperazione internazionale svizzera, nell’81, in Mauritania, impara ad utilizzare il compasso ligneo, di cui intravede l’efficacia e le possibilità. La terra, sia cruda sia sotto forma di mattone cotto, è il materiale privilegiato. Un materiale che lavora bene a compressione, facilmente reperibile e producibile in sito. Volte, archi e cupole rispondono efficacemente ai criteri di economicità e rapidità di esecuzione.
Tra le sue opere, il Kaedi Regionale Hospital, in Mauritania, rappresenta sicuramente l’espressione più alta di un pensiero e di un agire ‘sostenibile’. L’ospedale, una struttura in bilico tra ‘zoomorfismo’ e ‘fitomorfismo’, nella sua articolazione planimetrica propone un’organizzazione degli spazi aderente alle necessità e ai costumi delle popolazioni locali.
Data l’abbondanza in sito di argilla di ottima qualità, Caròla opta una struttura monomaterica. I mattoni utilizzati sono stati prodotti in sito: due forni alimentati con pula di riso, abbondante in loco, hanno reso possibile la produzione di decine di migliaia di mattoni. Quest’intuizione gli consente di realizzare una struttura molto complessa con un sistema a bassissimo impatto, con una positiva ricaduta anche sulla economia locale: il 75% delle risorse utilizzate sono state investite in sito.
Kaedi Regionale Hospital
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Le cupole dell’ospedale sono a doppia calotta: l’intercapedine tra i gusci garantisce un’efficace isolamento termico. Alla base delle cupole, bocchette di ventilazione, realizzate anch’esse in terracotta, consentono il passaggio dell’aria nell’intercapedine. Le cupole, ottenute come solidi di rotazione, sono realizzate con l’ausilio del tradizionale ‘compasso ligneo’, che indica al muratore la posizione nello spazio e l’inclinazione esatta di ciascun concio: un meccanismo costruttivo che le rende autoportanti durante le fasi di costruzione.
La straordinaria esperienza sostenuta da Carola, oltre che nella messa a sistema, nella sistematizzazione e divulgazione di un sapere tecnico che si era perduto, sta nell’aver rivolto lo sguardo verso un orizzonte apparentemente ‘marginale’. Negli anni in cui la cultura architettonica ‘ufficiale’, sostenenva l’idea di uno stile internazionale, FABRIZIO CAROLA compiva un’operazione apparentemente di retroguardia. Rivolgendo il suo sguardo acuto verso quella ‘periferia’ del mondo che è l’Africa, Caròla mette a fuoco una diversa interpretazione delle relazioni tra architettura e luogo: il luogo si manifesta attraverso la materia, che è intimamente connessa alla forma: Caròla ha “guardato attentamente il luogo e osservato meticolosamente la cultura dell’abitare prima di costruire. Si badi: il luogo nella sua fisica evidenza, e non il suo ‘geniusì ineffabile”1
Nell’opera di Caròla, la terra è la materia prima attraverso cui ‘mani pensanti’ plasmano architetture. Materia, luogo, ambiente, forma, sono espressione di una realtà e di un principio che governa il suo agire. La materia si fa elemento strategico del comporre: il processo che regola l’uso del materiale determina necessità e specificità, anche figurative. Il ‘compasso ligneo’ nelle sapienti mani di Fabrizio Carola si fa generatore di possibilità. Negli anni Caròla ne ha modificato le caratteristiche, ne ha variato l’assetto e la geometria con piccole innovazioni, che gli hanno consentito di ottenere una più ampia gamma di geometrie. Variando la geometria e l’asse di rotazione dello strumento, le cupole sferiche divengono a sesto acuto, una soluzione che rende possibile una maggiore efficacia nell’uso dello spazio interno, unitamente ad una migliore ventilazione.
Central Market Rehabilitation, Mopti, Mali
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Volevo una vita vera e l’ ho avuta. Ho avuto molto e ora sento il bisogno di restituire'”. E’ questa, a mio giudizio, la frase rivelatrice della natura di Fabrizio Caròla, una natura che lo ha portato a scegliere un percorso di vita e professionale meno agevole di quello che avrebbe potuto avere con poca fatica restando in Italia. Invece, ha scelto una strada più faticosa. La stessa che con ostinata convinzione lo ha condotto a fondare l’Associazione N:EA (Napoli, Europa Africa) nella convinzione che solo attraverso il dialogo e il confronto si possa immaginare e realizzare ‘un futuro possibile’. Quel futuro che sta cercando di ‘costruire’ a San Potito Sannita, un piccolo paese in provincia di Benevento. “Il vescovo di Alife, Pietro Farina ci ha fatto avere un comodato d’ uso per 30 anni di un ettaro e mezzo di proprietà della parrocchia e lì con gli studenti di architettura stiamo costruendo un villaggio. L’ obiettivo è la formazione. Si chiamerà “Sette piazze”. I ragazzi imparano a costruire con un grande compasso in legno, archi, volte e cupole. Sono strutture completamente diverse e molto più facili da vivere”.
San Potito Sannita è un piccolo paese, anch’esso apparentemente fuori dal ‘centro’, dove architetti, studenti di architettura ed insegnanti si ritrovano ogni anno per dar vita ad un ‘laboratorio’, dove l’architettura viene praticata come ‘mestiere’. Fare è imparare a fare. Questa regola governa la comunità che si raccoglie intorno a Fabrizio Caròla, un ‘antico’ maestro che insegna ai giovani architetti del futuro a costruire cupole, metafora di un agire più vasto. Antiche e alchemiche formule rivivono nel lavoro di nuove generazioni di architetti. La sua sapienza, la sua approfondita conoscenza di tecniche costruttive, che si sono ‘affinate e precisate nel corso di tren’tanni di sperimentazioni sul campo, la sua esperienza Caròla la trasmette alle nuove generazioni. Ci consegna un bagaglio di conoscenze tecniche, di sapienza che tocca a noi rinvigorire, approfondite trasmettere.
Ho incontrato Fabrizio Carola a San Potito. Durante la visita al cantiere. Durante la lunga chiacchierata che n’è seguita mi ha colpito la sua posizione, il suo modo di relazionarsi con l’architettura, con il mondo: “molte cose me le porto dentro come ragionamenti non esplicitati in parole ma in sostanza costruita (…) sono più il frutto di una intuizione, di una conoscenza istintiva che di un ragionamento scientifico”.
Una traccia che forse stavo cercando anch’io. Un agire, un modo di ‘fare’ in cui l’azione sembra essere governata più dalle ‘mani’ che da astrusi ‘ragionamenti’.
Anche per questo motivo penso che il lavoro di Caròla costituisca un esempio di ricerca condotta ‘fuori’ dagli schemi.
Per approfondire questo ragionamento ho posto a Fabrizio Carola alcune domande.
Luigi Alini: Quando hai deciso che saresti diventato un architetto?
Fabrizio Caròla: A tredici anni, non so perchè ma non ho mai cambiato idea.
LA: L’architettura era qualcosa che avvertivi esser parte della tua vita sin da ragazzo, è stato un lento avvicinamento o una rivelazione improvvisa?
FC: Ho alle mie spalle tre generazioni di ingegneri-imprenditori da parte di mio padre e tre generazioni di architetti da parte di mia madre. Può essere una spiegazione?
LA: Hai studiato alla Scuola Nazionale Superiore di Architettura di Bruxelles fondata da Van de Velde, uno dei fondatori della Bauhaus. In che modo l’impronta e il modello didattico che caratterizzava quella scuola ha inciso sui tuoi percorsi, sul tuo modo di ‘fare’ architettura, di praticarla come ‘arte-fatto’.
FC: A Bruxelles ho avuto degli ottimi professori: De Konink per i primi due anni e Victor Bourgeois per i tre anni seguenti: mi hanno messo sulla buona strada. Ma non è solo merito loro: tutto il sistema, impostato da Van de Velde, era estremamente efficace.
Prima di Bruxelles avevo frequentato per un anno e mezzo la Facoltà di Napoli; lì ci facevano copiare dei progetti di architetti famosi; a Bruxelles invece fin dal primo anno eravamo messi di fronte alla progettazione e producevamo un progetto per ogni trimestre. Il professore criticava e correggeva il mio progetto rispettando però la mia idea e l’ impostazione che io avevo scelto. Eravamo liberi di esprimerci e di avere delle idee a condizione che le idee nascessero dalla logica della funzionalità.
Costruction Technology Training Center, Mopti, Mali
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LA: Durante gli anni trascorsi a Bruxelles, quando eri un giovane studente, quali sono stati gli architetti ai quali guardavi con più interesse e quali le discipline che più ti affascinavano.
FC: Wright, perchè mi sembrava il più umano e Gaudì, di cui mi affascinava la straordinaria capacità di costruire messa al servizio di libertà e fantasia.
LA: Come è avvenuto il tuo incontro con l’architettura della tradizione africana ed in particolare con l’uso del ‘compasso ligneo’ e delle tecniche costruttive di derivazione nubiana.
FC: Le cose sono accadute in momenti diversi:
1) tra il ’61 e il ’63 sono stato impegnato in Marocco con un incarico di urbanista: sistemare le agglomerazioni rurali.
2) L’incontro con l’Africa nera, sub-sahariana, è avvenuto in Mali, nel 1971: vi ero andato non con un incarico di architetto ma di direttore dei lavori per la costruzione del nuovo molo e di alcuni edifici del porto fluviale di Mopti. Lì ho scoperto e studiato l’architettura sub-sahariana, frutto di un adattamento millenario alle condizioni locali, e ho cercato di oppormi al disastro culturale provocato dall’immissione cieca di modelli di architettura nord-occidentale.
3) Nell’81, in Mauritania, lavorando per l’ADAUA , sono venuto a conoscenza del sistema “compasso” per la realizzazione delle cupole. L’ho subito adottato, modificandolo e adattandolo alle esigenze del mio progetto.
LA: Hassan Fathy è stato un precursore, ha reso fruibile e sistematizzato tutta una conoscenza ed un sapere su queste tecniche che era prevalentemente fondato sulla trasmissione orale. Tra il tuo lavoro e quello di Fathy esistono delle evidenti assonanze. In che misura il suo lavoro ha rappresentato per te un riferimento.
FC: Non è l’architettura di Hassan Fathy (che apprezzo molto) che mi ha influenzato ma l’uso del suo compasso. Fin dall’università ero attirato dalle coperture a cupola, ma non sapevo realizzarle se non con strutture metalliche. Il compasso mi ha aperto la strada, che però era limitata a cupole sferiche. Modificandolo, ottenendo cupole ogive, ho ampliato le possibilità di forme e di spazi fondendo in una sola curva muro e tetto (con evidente risparmio di costi).
LA: In Africa hai costruito molto anche in terra cruda. Una materiale ‘vivo’. Qual’è stato il tuo approccio nell’uso di questo materiale ‘speciale’
FC: Mi piace costruire in terra cruda, è un materiale molto duttile perchè il mattone e la malta sono fatti della stessa terra, per cui si saldano e si fondono generando un monolite che può essere anche scolpito. Non sono però un fanatico della terra cruda: la uso quando giudico utile usarla. La terra cruda richiede manutenzione o protezione, perchè esposta alla pioggia fonde come neve al sole. Nelle regioni aride dell’Africa questo difetto ha minore importanza.
LA: Come è nato il progetto del Kaèdi Regional Hospital in Mauritania.
FC: E’ una lunga storia: nel ’78 fui incaricato dal FED (Fondo Europeo di Sviluppo) come consulente presso uno studio tecnico di Parigi per la progettazione dell’ospedale di Kaèdi.
Producemmo un progetto che fu accettato dal FED (finanziatore). Passò un po’ di tempo e seppi che l’incarico era stato trasferito all’ADAUA, associazione svizzera.
L’ADAUA, che avevo conosciuto in occasione di una visita a Kaèdi, mi propose di dirigere la costruzione dell’ospedale. Alla fine del 1980 mi trasferisco in Mauritania. Visito Kaèdi e il piccolo ospedale che bisognava ampliare e mi rendo conto che il progetto elaborato a Parigi era inadeguato. Lo rielaboro completamente e lo presento all’ amministrazione mauritana e al FED di Nouakchot. Il nuovo progetto viene approvato ed inizio i lavori.
Kaèdi è una piccola città della Mauritania. L’Ospedale è stato progettato come estensione del piccolo ospedale esistente realizzato dai francesi ancora ai tempi coloniali. Durante la mia indagine preliminare, visitando le vecchia struttura, fui colpito dalla confusione creata dalla presenza permanente delle famiglie dei pazienti che intralciavano i movimenti dei medici e degli infermieri. Interrogati, i medici mi risposero che l’assistenza dei familiari era indispensabile, avendo constatato che questa presenza continua dei parenti contribuiva alla loro guarigione. Fui molto toccato da questa informazione e posi questo dato, che ho chiamato famiglio-terapia, alla base del nuovo progetto. Dopo molte riflessioni e tentativi pensai di fare “esplodere la pianta” e, invece di un ospedale compatto, realizzare un edificio aperto che permettesse alle famiglie di accamparsi in prossimità delle camere di degenza.
Relativamente alla scelta del materiale e della tecnica costruttiva adottata, fui condizionato dal fatto che a Kaèdi come in tutto il Sahel il materiale più abbondante e più economico è la terra. Il legno è raro e usarlo significava contribuire alla desertificazione in corso. Il cemento armato è costoso, perchè viene importato, e poi non ha prestazioni adeguate a quelle condizioni climatiche. Scelsi dunque come materiale di base la terra, confezionata in mattoni alla maniera tradizionale. Nella tradizione però il mattone viene utilizzato semplicemente essiccato al sole perciò è molto vulnerabile alla pioggia e richiede una manutenzione costante. Ridurre il più possibile le manutenzione garantendo nel contempo prestazioni efficienti nel lungo tempo mi indussero alla decisione di utilizzare mattoni cotti, al fine di renderli resistenti all’acqua. Restava però il problema della produzione in sito dei mattoni e della loro cottura. Una risaia di 600 ettari, più uno stabilimento cinese per la pulitura del riso, producevano a Kaèdi, in grande quantità, riso, crusca e pula. Quest’ultima, non commestibile, si ammucchiava inutilizzata a disposizione del vento. Dopo un certo numero di tentativi, riuscii a creare un forno semplice ed economico in terra cruda, realizzabile con la mano d’opera locale, che permetteva di bruciare efficacemente la pula di riso ottenendo una temperatura fino a 1200 gradi. Per la tecnica costruttiva, avendo scartato legno e cemento a vantaggio del mattone non restava che l’utilizzo delle strutture curve: archi e volte.
Hamadallaye Market, Bamako, Mali
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LA: Il metodo, come una impalcature, sostiene il nostro agire. Giulio Carlo Argan ha proposto questa definizione di progetto. “Progettare è come attraversare un bosco per uscire dal quale quel che conta è dare coerenza ai movimenti”. Il bosco e la coerenza dei movimenti. Una metafora molto interessante: esplorare mondi sconosciuti e contemporaneamente ancorare il nostro agire ad un metodo.
Quando cominci a lavorare ad un progetto, quali sono i dati su cui ‘costruisci’ la proposta.
FC: Tutti i dati del luogo: il clima, le condizioni sociali dei futuri utenti, i materiali e mezzi disponibili, la qualità della mano d’opera, il budget disponibile, il tempo di consegna.
LA: Le tue architettura sono intimamente connesse al luogo. Sembrano essere una emanazione, una estensione di quel luogo. La ri-velazione del luogo sembra essere lo scopo del progetto.
FC: Questo deriva dal rispetto o meno dei dati enunciati nella risposta precedente al quale si aggiunge la sensibilità che è propria di ciascun architetto e che deriva dal suo curriculum umano e culturale.
LA: Il tuo interesse per l’Africa, per un’architettura che vive in sintonia con la natura credo abbia delle motivazioni che vanno al di là del contesto con cui ti sei confrontato. Penso si tratti di una motivazione più ‘profonda’. Un ‘sentire’ che ha una connessione più ‘intima’ con l’ambiente, non solo con l’ambiente naturale.
Mi ha molto colpito in questo senso l’associazione che hai fatto tra architettura e uomo, tra spazio e qualità dello spazio in relazione ad una distinzione tra strutture in-tensione e strutture ‘a riposo’ come le cupole.
FC: L’Africa mi ha sempre attirato e non so perchè ma nello specifico mi ha dato l’opportunità di esprimermi liberamente: nel bene e nel male, ma libero.
L’Africa non è ancora oberata da norme, articoli, commi, divieti, che opprimono la nostra vita e la nostra naturale creatività. Sappiamo benissimo che tutte queste normative servono a proteggere la collettività dagli abusi sul territorio, ma chi giudica?
LA: Luce e materia sono gli elementi di un sistema di relazioni molteplice, fatto di mille sfumature, che spinge la nostra ‘immaginazione’ ad andare ‘oltre’.
Nelle tue architettura sovente ad una componente massiva, fa da contrappunto, una progressiva ‘smaterializzazione’ della massa muraria in elevazione, come accade nell’ Herb Market di Medina, dove la luce e le sue relazioni con la materia, la sua porosità, manifestano una sorprendete leggerezza.
FC: Sento l’obbligo di precisare che io non ho un pensiero dell’architettura ma un procedimento logico nel progettare. Ogni elemento del progetto ha per me una sua precisa funzione. Non vi è nulla di inutile o di preconcetto. Se il risultato ha in più un valore estetico vuol dire forse che le scelte sono giuste e forse che non sono tutte dettate dal freddo raziocinio ma anche da una partecipazione del sub-cosciente, che è più o meno carico di valori umani e culturali e che subdolamente influenza il progetto.
LA: Le connessioni tra materiali, tecnologia e progetto sono molto evidenti nella tua ricerca progettuale, che sembra svilupparsi tutta all’interno della ‘dimensione costruttiva dell’architettura’.
FC: Sono sempre stato rispettoso del rapporto fra materiale, tecnologia, funzione e forma perchè dal corretto rapporto di questi quattro elementi dipende l’economia del progetto ed anche la sua riuscita.
Nella maggior parte dei casi, nel nostro mondo occidentale questo rapporto conduce a una soluzione a superfici piane a ‘reprimere’ il desiderio di superfici curve, giudicate troppo complesse e onerose da realizzare.
In Africa, invece, ho trovato condizioni del tutto diverse che ribaltavano la situazione, per cui l’uso delle forme curve, si rivelava una soluzione logica.
Nei paesi del Sahel (la zona dell’africa compresa fra il deserto e la foresta) la mano d’opera è abbondante, sotto-occupata e a basso costo; per contro i materiali moderni, come il cemento e il ferro, sono importati e perciò costano molto e implicano la fuoriuscita di moneta pregiata, mentre l’uso del legno contribuisce alla desertificazione. La terra, materiale abbondante e a costo quasi nullo, sotto forma di mattoni cotti o crudi, è il materiale più economico e diffuso.
Per utilizzare il mattone o la pietra anche in copertura, in sostituzione del legno, ferro o cemento, bisogna ricorrere necessariamente alle strutture compresse e cioè: volte, archi e cupole.
Applicando e sperimentando l’uso di queste strutture ho potuto rilevarne vari vantaggi: sono economiche, di facile e rapida esecuzione anche per una manodopera non qualificata e si comportano meglio del cemento armato in difficili condizioni climatiche.
LA: L’architettura, almeno in certe condizioni sembra essere governata dall’economia, a volte n’è la diretta emanazione. In che misura ti sei dovuto confrontare con questo dato del progetto e come ha inciso sulle tue scelte.
FC: L’economicità deriva soprattutto dal poter risolvere con un materiale economico il problema. Nel caso delle strutture a cupola, l’operaio in una sola operazione realizza l’intera costruzione dalle fondazioni alla chiusura.
E’ un’operazione semplice, più di quanto lasci supporre la forma ardita di una cupola. Con l’aiuto del ‘compasso’ il muratore procede sicuro, senza rischio alcuno di poter sbagliare. Questa operazione non richiede nessuna particolare competenza: non bisogna fare altro che posizionare il mattone secondo l’inclinazione indicata dal compasso. Questo sistema è talmente semplice che ho potuto realizzare decine di cupole, di varie forme e dimensioni, con operai non qualificati, improvvisati muratori dopo poche ore di apprendimento.
Come vedi la mia scelta risponde a criteri di efficienza e di economicità.
LA: L’articolazione planimetrica delle tue architetture sovente sembra privilegiare una struttura ‘a grappolo’.
FC: Quando utilizzi un principio costruttivo fondato sull’uso della cupola, il sistema di pianta può essere sia ortogonale (quadrati e rettangoli) sia polare (una combinazione di cerchi). La pianta polare si è rivelata, prima in teoria e poi nella pratica, più economica, per tempo e quantità di materiale, e più adeguata alle caratteristiche della manodopera disponibile in Africa
LA: Un’ultima curiosità. In più di trent’anni di attività le superfici curve non ti hanno mai ‘abbandonato’, non lo hai mai avvertito come un limite.
FC: La cupola è una forma di copertura che mi ha sempre attratto ed affascinato fin da quando, ancora ragazzo, ho pensato di diventare architetto.
Quando mi chiedo il perchè di questa attrazione, trovo più risposte, nessuna sufficiente ma forse tutte valide, perchè tutte insieme danno una risposta, se non completa almeno sufficiente.
Prima di tutto la cupola appartiene al mondo delle curve: pur senza disdegnarle, non ho amore per le superfici piane, squadrate, piegate ad angolo retto con spigoli vivi. Trovo che le superfici curve e raccordate siano più vicine alla forma della natura e perciò più adatte a racchiudere o accompagnare la vita dell’Uomo.
In secondo luogo posso supporre che la mia appartenenza alla civiltà mediterranea, che di archi, cupole e volte ha fatto grande uso, abbia la sua parte nella predilezione che ho per queste forme.
Infine, ti confesso, che le curve soddisfano maggiormente il mio tipo di sensibilità perchè sono morbide e sensuali, ma questa è un’altra storia!
Medine Herb Market, Bamako, Mali
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Per maggiori infomazioni: Rivoluzionesostenibile.org
Note
1Benedetto Gravagnuolo, p. 32, in Villaggio per sperimentare una ipotesi di futuro, a cura di F. Verderosa, Intra Moenia, Napoli, 2003
3 Aprile 2009, 17:57
Giuseppe
Ho apprezzato l’opera del Sig.Fabrizio guardando Geo&Geo.
Esprimo ammirazione per quello che fa e per la sua espressione:
“Volevo una vita vera
e l’ho avuta.
Ho avuto molto e ora
sento il bisogno di restituire”.
Con stima.
Giuseppe.-