26 Marzo 2009
Opere di Architettura
Leibnizkolonnaden a Berlino (1997-2000)
di Hans Kollhoff*
Veduta della piazza filtrata dalle colonne
A Berlino, nelle immediate vicinanze del Kurfürstendamm, Hans Kollhoff, coadiuvato da Helga Timmermann, è il protagonista di un gesto architettonico di grande rigore conferendo una forte identità ad un vuoto urbano per troppo tempo abbandonato ad uno stato di assoluta provvisorietà.
Grazie a due edifici dal carattere compatto, Kollhoff definisce due testate raffrontate, una coppia di margini regolari chiudenti posti a separare il tessuto edificato esistente da una nuova piazza. Si tratta della Walter Benjamin Platz che come un ampio corridoio pedonale congiunge due delle principali arterie del quartiere di Charlottenburg. A delimitare la piazza verso la Leibnizstrasse, schermando con lo scrosciare dell’acqua i rumori del traffico, è una serie di fontane che “nascono” dal piano pavimentale realizzato in grandi piastre di granito. A dar forma alle pareti dell’invaso spaziale, individuando una lunga fuga prospettica, sono le cortine continue di facciata dei due edifici contrapposti, sviluppate per oltre 100 metri di lunghezza e 20 metri di altezza.
All’interno di ognuno dei corpi di fabbrica sono ospitate diverse funzioni, da quella residenziale a spazi per il commercio e le attività ricettive; così come diversi sono il numero dei piani (sette o otto livelli), la distribuzione planimetrica e il dispositivo strutturale (telai o setti portanti in cemento armato). Tale differenziazione dà vita a due facciate simmetriche ma non identiche, dove il tema comune della scansione tettonica dei prospetti è sì frequentemente variato, ma rimane sempre e comunque inscritto in un regola generale, dettata dalle gronde continue (sormontate da un breve attico) e da due, eguali, portici colonnati terreni.
Planimetria e sezione trasversale dell’intevento
Le colonne che, in una sorta di ordine gigante, si sviluppano per i primi due piani di ogni edificio, compartecipano alla macchina statica dell’insieme e scandiscono, insieme con lesene e marcapiani ai livelli superiori, la spessa profondità plastica dei fronti. Si tratta di una partitura di facciata dalle forti valenze chiaroscurali, realizzata tramite colonne monolitiche e grandi lastre di rivestimento in pietra arenaria grigia posate a strati, così come efficacemente descritto dallo stesso Kollhoff: “oggi non si costruisce più con pesanti pietre sbozzate. La pietra che adoperiamo è in lastre di spessore da tre a sei centimetri (…). La disposizione delle lastre sulla facciata può seguire due principi opposti. Il primo è considerare l’edificio come un cubo astratto (…). Il secondo è trattare l’edificio oggettivamente: le lastre vengono articolate secondo un principio tettonico (…). Seguendo il procedimento della tettonica si aprono, oltre a quelle ormai dimenticate, altre possibilità di espressione dell’edificio, superando il semplice tema della distribuzione dei carichi, ma riportando in primo piano la relazione con la fisicità dell’uomo. Per questo noi consigliamo – soprattutto nell’isolato, quando l’edificio non si presenta come volume ma semplicemente come superficie – di costruire la facciata posando i rivestimenti a strati, cioè lavorando sull’effetto di rilievo. Le lastre di rivestimento si possono traslare una dietro l’altra senza problemi. Le tolleranze vengono coperte, le fughe delle giunzioni sono inevitabili solo nella zona dell’architrave. Con una forma architettonica sublimata si ottengono l’immagine monolitica e il gioco di luce e ombra che tanto ci impressionano della pietra prima che venga tagliata”.1
In quest’ottica che non falsifica la massività dell’architettura litica ma ne aggiorna la “sostanza” costruttiva, anche la monoliticità delle colonne è ottenuta grazie ad un fruttuoso sincretismo che fonde la tecnologia del calcestruzzo armato e una pratica rinnovata della scienza stereotomica.
Attorno ad un’armatura d’acciaio e all’interno di una casseratura metallica, viene gettato un impasto di leganti e graniglie di marmi diversi per dar vita ai fusti delle colonne. Gli elementi grezzi così ottenuti sono poi lavorati su di un grande tornio che, asportando materiale, conferisce alle colonne l’entasi geometricamente perfetta che le caratterizza. In un processo costruttivo che vede la perizia artigianale degli scalpellini sostituita dalla precisione elettronica delle macchine a controllo numerico, i fusti sono poi ulteriormente levigati e lucidati sino ad ottenere una superficie specchiante che evidenzia la granulometria omogenea degli inerti di marmo dell’impasto.
Rielaboazioni grafiche di facciata e colonna
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Così in questa teoria di 52 fusti tutti identici, alti oltre 6 metri con un diametro massimo di 76 centimetri, Kollhoff trova la quintessenza della colonna contemporanea, mancante della base perché appoggiata direttamente su di una pedana litica che evoca lo stilobate classico e priva di capitello in quanto conclusa, in cima, da un semplice collarino. In questa estrema sintesi che vuole distillare le nuove forme di un ordine architettonico stilizzato, anche la successione classica di architrave, fregio e cornice della trabeazione è presentata come semplice progressione in leggero aggetto di due fasce piatte e di un listello terminale. Dei triglifi rimane una memoria in una piastra quadrata posta sull’asse di ogni supporto colonnare.
di Alfonso Acocella
Note
* l saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 Hans Kollhoff, “Hofgarten am Gendarmenmarkt, Friedrichstrasse 79”, Bauwelt n.7, 1997, p.300 (traduzione italiana Annegret Burg, Kollhoff, Berlino, Birkhäuser, 1998, pp. 190-191).