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9 Gennaio 2009

Design litico

Il design litico

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Verona. Seduta urbana (foto: Alfonso Aocella)

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Oltre l’industrial design
L’aggettivo industrial unito al sostantivo design, nell’associazione a noi tutti nota dell’industrial design, ha monopolizzato larga parte dei discorsi e la stessa storiografia recente degli oggetti, cristallizzando (e divulgando) una visione unilaterale -se non addirittura tendenziosa- indirizzata a sostenere la tesi che le tecnologie meccanizzate ed automatizzate di produzione insieme agli oggetti replicati in grande serie identici a se stessi, siano gli univoci ed autentici attributi del design contemporaneo.
Su questa idea e sulla prassi conseguente che l’ha sostanziata è cresciuta e si è affermata nella seconda metà del XX secolo la notorietà internazionale del design italiano (e, se si vuole, dello stesso “made in Italy”) sancendo una rottura formale rispetto al passato e solidificando un paesaggio materico e oggettuale espressione, prevalentemente, della civiltà industriale ed artificiale.
Anche il design italiano – versione molto peculiare dell’industrial design internazionale- lega le sue vicende allo sviluppo produttivo moderno (ovvero industriale) e all’orizzonte di una realtà oggettuale seriale di massa tagliando ideologicamente i ponti con la ricca e variegata tradizione pre-industriale, la sola capace di illuminare molti aspetti e i caratteri stessi della storia artistica, architettonica, urbana del nostro Paese; quella tradizione alimentata, per secoli, dal primato dell’Antico e dalle sue numerose Rinascenze che ci ha lasciato in dote autoriali ed elitari oggetti di arte decorativa insieme ad anonimi ma eleganti oggetti di uso comune, risultato di un perfezionamento dei tipi nella lunga durata da parte di una cultura materiale diffusa e variegata nel Paese.
Oggigiorno i paradigmi e le condizioni della produzione di beni materiali (e immateriali allo stesso tempo) si sono notevolmente modificati sotto la spinta della natura molto fluida e multiforme della globalizzazione economica e delle esperienze di vita molto “virtualizzate” in avvio di nuovo millennio che tiene oramai insieme postfordismo, new economy, flessibilità e nuova organizzazione-dislocazione del lavoro.
Gli assiomi tipicamente moderni della produzione industriale collegati all’idea di fabbrica saldamente radicata in un luogo e ai prodotti replicati in grande serie, non rappresentano più le condizioni nè uniche e nè totalizzanti all’interno delle strategie di crescita dell’economia attuale.
La stessa dicotomia fra tecnologie industriali ed artigianali di produzione sembra oggi sfumarsi all’interno della flessibilità e dell’integrazione del lavoro che ha prodotto la visione del tailor-made. L’artigianato e il fatto a mano si affiancano – oramai – con le alte tecnologie, le grandi serie dei cicli meccanizzati convivono con le piccole serie, le serie diversificate, i fuori serie, gli oggetti unici.
Riguardando all’interno di questo rimescolato quadro generale dell’economia globalizzata la problematica specifica legata al rapporto fra produzione e design si nota come, in Italia, sta riemergendo in primo piano ciò che una visione edulcorata e “partigiana” dell’industrial design ha tenuto sommerso, pur alimentandosi costantemente a tale substrato.
Ci riferiamo allo spazio immateriale, all’humus estetico e di gusto del Paese entro cui la creatività dei designer italiani si è formata, supportata sul fronte operativo dai saperi artigianali diffusi territorialmente e fortunatamente conservatisi fino ad oggi.
Entro questo quadro dialettico esterno-interno (sistema Paese-industrial design) alle fasi creative e prefigurative sono seguite spesso quelle sperimentali che hanno ampiamente utilizzato prototipi capaci di esprimere, al reale, la verifica dei progetti di design, liberati dai forti condizionamenti derivanti dalla rigidità delle organizzazioni del lavoro di stampo fordista. Prototipi a volte anticipatori di prodotti passati alla grande serie, altre volte destinati a rimanere “testimonianze solitarie” (memoria di percorsi esplorativi poco fortunati), altre volte ancora destinati a materializzarsi in piccole serie, in limited-edition design anticipatrici della moda che sembra affermarsi recentemente.
Ma ancor più dell’apporto e della maestria artigianale poste alla base dell’affermazione del design italiano lungo la seconda metà del XX secolo, ciò che costituisce all’origine la linfa vitale della creatività trasferita nel made in Italy riteniamo vada rintracciato risalendo alle radici storiche ed identitarie di lunga durata del Paese.
È la qualità estetica, la bellezza, la ricchezza dell’Italia – dalla scala del “piccolo” (gli oggetti ammirabili nei mille musei o nelle residenze patrizie) alla scala avvolgente dell’architettura e della città antica, fino a quella paesaggistica e naturalistica – ad alimentare e collegare, secondo noi, la cultura contemporanea del design italiano (anche di quello industrial) alle sue radici e al continuum storico stratificatosi nei secoli che risale – a ritroso – dal Barocco verso il Rinascimento, il Tardo Antico, l’Antico.
Senza cogliere questo filo invisibile mai completamente spezzato, legato ai valori territoriali che ancora emergono nel Paese pur nel grande mare dell’omologazione contemporanea, non si potrebbero spiegare i motivi dell’enorme vitalità e creatività espressi periodicamente dal design italiano; vitalità e creatività, come già sottolineavamo, sostenute e arricchite dalle abilità pratico-manuali dei craftsmen italiani, riversate beneficamente sulla produzione industriale, sia pur indirettamente.
Tale condizione molto particolare esprime, secondo noi, la peculiarità del design italiano rispetto a quello degli altri Paesi.
Non è un caso che, se ancora il made in Italy continua la sua affermazione sui mercati internazionali – come testimoniano i dati in attivo dell’export degli ultimi cinque anni – molto lo si deve a prodotti a forte tasso di creatività e a vocazione identitaria territoriale legati al nostro stile di vita (arredamento, moda, enogastronomia ecc.) e alla stessa immagine (eminentemente storica) del Paese che svolge il ruolo di atto di richiamo e di sfondo esperienziale (reale e virtuale) nell’immaginario collettivo internazionale.
Su questa Italia – riguardabile, sulla scia della visione di Kevin Roberts di Saatchi & Saatchi, come lovemark territoriale identitario – e sull’articolazione del mercato dei prodotti sembra recentemente agire una inedita “pressione” dall’esterno non priva di ripercussioni sull’offerta di esperienze di vita, di cultura estetica, di beni e di materiali che ne alimentano i cicli produttivi.
Ci riferiamo, in particolare, alla spinta esercitata dai Paesi emergenti che vanno progressivamente consolidando ed accrescendo la richiesta di prodotti ed esperienze di vita legati alla sfera del lusso, di quel “lusso necessario” come è stato recentemente interpretato dagli analisti per sottolinearne la significativa “espansione” della domanda indirizzata verso la gamma alta di prodotti e servizi, verso la tipicità e l’eccellenza manifatturiera sia essa artigianale o industriale.
Troviamo così l’Italia nuovamente attraversata – come all’epoca di Goethe – da “talent scout” del lusso (e, più in generale, delle qualità tipiche nazionali) impegnati nella ricerca e nella scoperta di tutto quello che gli altri Paesi non hanno.
Accanto agli oggetti in grande serie, figli dell’industrial design contemporaneo italiano di qualità, si assiste alla ricerca di prodotti di nicchia, spesso preziosi ed elitari, confermando la stessa teoria della “coda lunga” che sfrutta l’economia delle reti per una loro scoperta al di la del mercato di massa così come descritto da Chris Anderson nel noto saggio The long tail.

Palladio e il design litico
Vorremmo ora rientrare dall’orizzonte problematico generale ad una dimensione più specifica e pertinente dove il termine design è ricondotto al suo significato etimologico più appropriato liberandolo dalla visione che ha relegato i designer contemporanei (gli “architetti del piccolo”, come qualcuno li ha definiti) a lavorare unicamente nella direzione dell’industriale e del seriale, dei grandi numeri e dell’identico.
To design significa – come precisa Vilèm Flusser in Filosofia del design – “architettare qualcosa”, “simulare”, “ideare”, “abbozzare”, “organizzare”, “agire in modo strategico”. E “il design – citando sempre il filosofo praghese – rappresenta il punto in cui convergono grandi idee che, derivando dall’arte, dalla scienza e dall’economia, si sono arricchite e sovrapposte l’una con l’altra”.
Ecco allora che la mostra Palladio e il design litico, ideata e curata da Raffaello Galiotto, si offre come occasione felice e propizia, sia per approfondire una più ampia e libera concezione del design, sia per ricollegarsi ad uno dei poli del vasto palinsesto storico nazionale fatto di stratificazioni, di esperienze visive e di cultura materiale a cui finora abbiamo fatto riferimento in apertura del nostro saggio.
Nel caso specifico l’aggancio al patrimonio identitario del territorio vicentino e alla tradizione degli oggetti in marmo e pietre ornamentali pre-industriali passa attraverso la conoscenza e la rilettura-interpretazione di alcune opere alla scala di elementi d’arredo fisso di Andrea Palladio; il primo e più grande architetto globale che ha influenzato i più vasti orizzonti: dall’Inghilterra all’America, dalla Francia alla Russia. Una iniziativa ideale per riconnettere il design contemporaneo al grande filone degli oggetti marmorizzati storici.
L’operazione di rilettura e virtualizzazione delle opere di Palladio è efficacemente sintetizzata in un documento informativo del Consorzio Marmisti Chiampo promotore dell’iniziativa. Non infrequentemente questi anonimi e scarni documenti interni alle organizzazioni di lavoro fissano le idee centrali dei progetti:
“L’importante occasione della celebrazione del cinquecentenario della nascita del grande architetto Andrea Palladio, è stata stimolo ed incentivo per lo studio di un progetto ispirato alla produzione del “Tagliapietre” più conosciuto al mondo e per la realizzazione di una mostra dedicata al design lapideo, resa possibile grazie alla secolare arte ed abilità di lavorare la pietra dei marmisti della Vallata del Chiampo.
Mediante l’approfondita e originale ricerca del designer Raffaello Galiotto, con il prezioso contributo cognitivo offerto da CISA, sono state individuate alcune opere del Palladio che possono essere definite “prototipo” di una moderna concezione di design.
In questi oggetti ed opere sono state individuate una serie di linee e curve che si ripetono.
Dallo studio di queste linee e dalla loro rielaborazione, il designer Galiotto è stato in grado di creare una serie di opere in marmo, pietra e granito di design contemporaneo”.
Raffaello Galiotto ha lavorato per questa specifica esperienza con coraggio e strategia creativa inconsueta, portandosi fuori dalla logica convenzionale (e in qualche modo stereotipata) dell’industrial design, assumendo come target della sua visione un pubblico ideale di amanti del “bello lussuoso” dal sapore classicheggiante; allo stesso tempo ha fissato in alcune opere-prototipo un’intonazione formale inedita che slarga anche verso orizzonti affatto storicizzati il concept progettuale generale.
Il comune denominatore di tutti i prototipi realizzati da Galiotto è rappresentato dall’intensità ed esuberanza del lavoro creativo indirizzato alla prefigurazione di elementi d’arredo o di design di superficie, dai caratteri morfologici, materici ed estetici, fortemente vibranti quasi si trattasse di pezzi di designart.
Nei prototipi in mostra è evidente come la creatività e la sperimentazione formale appaiono fattori fondamentali, forse ancor più importanti del valore funzionale e d’uso delle opere stesse.
Alcuni degli oggetti esposti rappresentano interessanti esempi di innovazione morfologica, enfatizzati dalla fortissima componente estetica, collocando il lavoro di Galiotto ai confini fra arte, design, architettura nella ricerca di nuovi spunti e forme per il design litico.

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Collezione “Palladio e il design litico” di Raffaele Galiotto

È fortemente rimarcato il senso formale, materico, tridimensionalmente espanso di un design litico che interpreta potentemente la monoliticità e la varietas colorico-segnica di marmi, pietre, graniti; tali caratteri riteniamo che sostituiscano il vero ponte concettuale rispetto al punto di partenza, allo statuto delle opere di Andrea Palladio.
Non sottovalutato – anzi tutt’altro – l’aspetto del trasferimento dei concetti (la realtà ideale) verso gli oggetti materici (la realtà fisica) nella specifica fattispecie degli artefatti da esporre in mostra.
Materiali litici ricercati, raffinati e diversi per ogni oggetto, tecnologie avanzate di trasformazione e modellazione della materia, apporto artigianale per le fasi di completamento e finitura, rappresentano i fattori peculiari su cui è imbastito tutto il progetto di Raffaello Galiotto.
La strategia della flessibilità e dell’integrazione uomo-macchina è coscientemente adottata per valorizzare al massimo le secolari maestrie ed abilità dei marmisti della Vallata del Chiampo e le accresciute e straordinarie potenzialità delle macchine d’avanguardia per la lavorazione dei lapidei in disponibilità – le une e le altre – delle aziende del Consorzio Marmisti Chiampo sostenitrici ed esecutrici del progetto “Palladio e il design litico”.

di Alfonso Acocella

Vai a: Palladio e il design litico
Vai a: Galiotto design
Vai a: Consorzio dei Marmisti della Valle del Chiampo

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