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27 Ottobre 2008

Scultura

SPAZI DEDALICI
I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
(Parte III)

I LABIRINTI DI PIETRA TRA ARCHITETTURA E PAESAGGIO

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Robert Morris, Labirinto, 1982

Costruzioni site-specific: operare nell’ambiente naturale
Nel noto saggio La scultura nel campo allargato (1978), Rosalind Krauss, giudicando non più appropriato l’utilizzo del termine “scultura” per definire tutta una serie di interventi artistici realizzati a partire dai primi anni Settanta1, individua ed argomenta un nuovo raggio d’azione per l’arte contemporanea – includente le categorie di architettura e paesaggio – all’interno del quale si inscrivono i labirinti di Robert Morris radicati nell’ambiente naturale.
La comprensione di questa apertura della pratica scultorea ad innovativi orizzonti interpretativi richiede un excursus inerente al rapporto opera d’arte/contesto attraverso tre tappe fondamentali: la scultura tradizionale, quella modernista ed infine la concezione minimalista.
Per secoli, argomenta la Krauss, la scultura è stata inseparabilmente legata alla logica del monumento: ha agito nel caratterizzare puntualmente un luogo specifico (tombe, artefatti e spazi celebrativi, vie cerimoniali…) esaltandone emblematicamente il significato. In tali ambiti insediativi, il piedistallo ha svolto un ruolo duplice e di primo piano in quanto ha connesso la scultura al sito reale, ma allo stesso tempo ne ha sancito la sua valenza virtuale e simbolica, innalzandola dal livello del suolo.
Questa logica, radicata nella storia delle arti plastiche, comincia ad essere erosa nel tardo Ottocento fino ad incrinarsi, salvo rare eccezioni, vivamente nel giro di alcuni decenni.
Il Balzac di Rodin (1898) è un esempio chiarificatore di tale processo: nonostante sia stato concepito come monumento – da erigere in un determinato luogo di Parigi – figura oggi in numerosi spazi espositivi eccetto che nella sua destinazione originaria e logicamente significativa.
L’autonomia dell’opera scultorea rispetto al contesto paesaggistico o urbano – esemplificata dal caso di Rodin – viene portata alle estreme conseguenze dall’arte di Brancusi. Svariate opere dell’artista rumeno (Le Coq, Cariatides, Adam et Ève) assorbendo e annullando nel corpo stesso della scultura il basamento, segno tangibile dell’aderenza e della “saldatura” ad un luogo specifico, affermano così il loro carattere essenzialmente materico-formale e sostanzialmente a-contestuale.
La totale rimozione delle relazioni significanti col contesto dall’oggetto scultoreo, apre le porte ad una nuova fase caratterizzata da una totale antitesi rispetto alla preesistente logica del monumento: il modernismo. Definire il raggio d’azione della scultura è adesso possibile esclusivamente in termini di una vera e propria negatività, data dalla somma del non-paesaggio e della non-architettura.
Diversi protagonisti del minimalismo, primo fra tutti Robert Morris, dichiarano apertamente il loro rifiuto ad una concezione dell’artefatto plastico come “una pura astrazione, un puro riferimento o un puro piedistallo, privo di localizzazione funzionale e ampiamente autoreferenziale”2.

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Robert Morris, Untitled (Mirrored Cubes), 1965
Robert Morris, esposizione alla Green gallery, dicembre-gennaio 1965

Al contrario tendono ad assottigliare sempre di più il divario che separa l’opera dall’ambiente circostante attraverso dispositivi artistici in grado di fondersi col paesaggio o con lo spazio espositivo come nel caso dei quattro cubi specchiati installati all’aperto o delle entità geometriche di compensato presentate alla Green Gallery di New York nel dicembre-gennaio 1965, entrambi realizzati da Morris.
Coinvolti nell’interesse per il contesto promosso dalla stagione “riduzionista”, un gran numero di artisti americani – Robert Smithson, Michel Heizer, Richard Serra, Walter De Maria, Robert Morris … – scelgono, agli inizi degli anni Settanta, di confrontare il loro lavoro con i due termini positivi di paesaggio e architettura, realizzando non più oggetti scultorei esposti in gallerie o musei bensì alterando veri e propri luoghi esterni attraverso costruzioni denominate site-specific.
Per gli artisti precedentemente citati – più o meno segnati dall’esperienza artistica del minimalismo – operare all’interno dell’asse complesso paesaggio/architettura non assume il mero significato di un rifiuto del contesto siteless di molta scultura modernista o di un ritorno alla demarcazione del luogo reale attraverso una rappresentazione simbolica, propria della scultura tradizionale. Realizzare costruzioni site-specific equivale ad interagire direttamente nel “campo allargato” della pratica artistico-scultorea così come era avvenuto in passato in culture altre rispetto alla nostra.
“I labirinti e i dedali – afferma la Krauss – sono al tempo stesso architettura e paesaggio, e lo stesso vale anche per i giardini giapponesi (…) Il che non significa che si trattasse di una forma primitiva, o degenerata, o deviante di scultura, ma di una parte di un universo o spazio culturale di cui la scultura era a sua volta solo una parte”3.
Ed è proprio l’insegnamento di tale orizzonte culturale, che Robert Morris – insieme ad altri numerosi artisti – recupera ed allo stesso tempo reinterpreta, realizzando strutture labirintiche radicate nell’ambiente naturale in grado di estendere il raggio d’azione della pratica scultorea.

Cerchi concentrici, spirali e segni stilizzati: apertura al paesaggio
L’asse complesso architettura/paesaggio comincia ad essere occupato ed esplorato da Robert Morris con la realizzazione di Observatory, un’imponente struttura legata alla morfologia labirintica da un’accentuata tendenza centripeta.

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Robert Morris, Observatory, 1977 (1971)

Nonostante risalgano al 1965 i primi progetti caratterizzati da un evidente interesse per gli osservatori astronomici del neolitico, solo nel 1971 – in occasione di Sonsbeek ’71, manifestazione internazionale organizzata dalla città olandese di Arnheim – viene concessa all’artista la possibilità di erigere una costruzione site-specific in un vasto terreno pianeggiante.4
La complessa struttura – costituita da terra, legno, blocchi di granito e acciaio – consiste in due cerchi concentrici dal diametro esterno di settantuno metri, separati da un fossato.
Il recinto interno – formato da un muro di zolle erbose addossato ad uno steccato di legno – presenta quattro aperture, una delle quali costituisce la porta d’accesso. Quest’ultima può essere raggiunta attraversando un tunnel dalla sezione triangolare, ricavato nel terrapieno occidentale dell’anello esterno, e percorrendo un canale che divide l’osservatorio nel suo asse est/ovest. Delle tre rimanenti aperture del recinto interno, la prima guarda ad est verso la conclusione del canale (un terrapieno perforato da due lamine d’acciaio che formano una V, tali da indicare la posizione del sole durante gli equinozi); le altre interruzioni sono rivolte verso i restanti argini anch’essi conclusi in alto da due lastre disposte a novanta gradi e poste a marcare la posizione del sole durante il solstizio d’estate e d’inverno.
L’aspetto complessivo dell’opera attinge, in maniera esplicita, a fonti neolitiche prima fra tutte il misterioso complesso di Stonehenge, orientato verso il punto esatto nel quale sorge il sole durante il solstizio d’estate, notoriamente strutturato su una composizione di monoliti che dà vita ad una forma planimetrica circolare.
Nell’intervista rilasciata ad Achille Bonito Oliva pubblicata su Domus (1972) l’artista dichiara esplicitamente la forte influenza che ha esercitato su di lui l’arte preistorica e tenta di rintracciarne le intime motivazioni: ” È solo che esiste qualcosa nell’arte orientale e in quella preistorica che ha un certo fascino per me. Forse la rispondenza che la loro arte ha alla natura, ai cicli della natura – il tempo, gli edifici orientati, magari in direzione di una stella, o di un sole (…) La complessità delle funzioni di certe costruzioni neolitiche è quello che mi affascina”5.
Il recinto arcaico di Stonehenge diviene una sorta di cornice temporale nella quale si inscrive l’esperienza fisica dell’opera; al fruitore è concessa la possibilità di muoversi come in un meandro ma di occupare infine – al pari di un labirinto vero e proprio – l’esatto centro della costruzione. Una fotografia dell’epoca, approvata dall’artista, sintetizza efficacemente tale concetto.
Nonostante tale immagine bidimensionale catturi visivamente la posizione assoluta e centrale occupata dall’individuo all’interno della struttura, la sensazione che suscita, paradossalmente, è quella di uno sconfinamento, di un decentramento della figura umana nella vastità del paesaggio circostante. Il recinto interno, delimitato da un basso steccato, non isola il fruitore dal contesto naturale – come avverrà nei successivi labirinti di Celle e Pontevedra – ma al contrario lo invita ad entrare in contatto con la sconfinata pianura olandese che si estende fino all’orizzonte.
Il paradosso tra la tendenza centripeta dell’opera e l’impressione di una decentralizzazione dell’individuo rispetto all’ambiente naturale è alla base di una ulteriore opera la cui realizzazione precede di un anno quella dell’osservatorio: Spiral Jetty di Robert Smithson.

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Robert Smithson, Spiral Jetty, 1969-1970

Rocce, terra e cristalli di sale sono i materiali che costituiscono lo sconfinato “molo” disteso in lunghezza per 450 metri nel lago rosso a Rozelle Point, nello Utah, il cui andamento topologico spiraliforme rievoca i mitici vortici generati da correnti sottomarine al centro della distesa di acqua salata.
Rosalind Krauss, in Passaggi (1977), pone questo intervento di Land Art come ultimo esempio di un’impresa di decentramento, indirizzata ad investire la conoscenza e l’esperienza che abbiamo di noi stessi e condotta – attraverso un lessico astratto – da numerosi artisti negli anni Sessanta e Settanta.
L’opera di Robert Smithson, converge verso un centro che il fruitore può raggiungere e occupare stabilmente; la sua forma spiraliforme – al pari di un tracciato labirintico univiario – delinea un univoco percorso che, avvolgendosi su se stesso, culmina in un preciso spazio interno. “Tuttavia – congettura la Krauss – l’esperienza che suscita è quella di un continuo decentramento nell’immensa distesa di acqua e cielo” data dalla totale apertura del molo ad illimitati orizzonti6.
La vastità del paesaggio naturale, tanto in Spiral Jetty di Smithson quanto in Observatory di Morris, diviene parte integrante non solo dell’intervento artistico quanto dell’esperienza fruitiva che entrambe le opere richiedono. Vengono così rimesse in gioco le nostre usuali e rassicuranti posizioni centriche (sia fisiche che psicologiche), sottoposte in qualche modo alla “dispersione” di fronte all’evidenza illimitata del mondo.
Tale presa di coscienza dell’osservatore di fronte all’aperto e sconfinato paesaggio è vicina alle manifestazioni del sublime teorizzate da Edmund Burke nel XVIII secolo. Lo sconvolgimento emotivo suscitato da maestosi elementi naturali descritto dal britannico, viene però aggiornato da artisti come Morris e Smithson in senso fenomenologico, attraverso una ricezione attiva del contesto paesaggistico nel quale le opere si radicano. Ne consegue la scoperta dell’appartenenza del nostro corpo ad un sistema vasto e complesso, dove si perviene ad una piena consapevolezza solo in virtù di un investimento fisico, di un’esperienza di un passaggio a cielo aperto.
L’articolo di Robert Morris “Aligned with Nazca” comparso su Artforum nell’ottobre 1975, risulta proprio incentrato sulle relazioni fisiche e psicologiche che legano lo spettatore ad un contesto naturale dall’estesa spazialità7.

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Robert Morris, Looking down on a Nazca Line, 1975

Il saggio è suddiviso in due sezioni: la prima, essenzialmente narrativa, si focalizza sul viaggio compiuto dall’artista in Perù per osservare le misteriose linee di Nazca8 e sul suo processo investigativo; la seconda, di taglio critico, verte sulla connessione esistente tra i tracciati peruviani e numerosi interventi artistici coevi alla stesura dell’articolo.
L’intima connessione tra i tracciati peruviani e i labirinti viene esplicitata sinteticamente da Morris – seppur all’interno di una riflessione più ampia – nella seconda sezione del saggio.
Sia gli antichi disegni che i labirinti – argomenta l’artista – se osservati da una posizione privilegiata, come quella aerea, vengono ridotti ad un insieme di linee tracciate su un piano disposto a novanta gradi rispetto ai nostri occhi. Una simile “elevazione” dello sguardo rinnega totalmente la spazialità in cui vivono tali artefatti artistici fortemente legati al suolo; l’unica dimensione in grado di valorizzare la composizione “orizzontale” che li caratterizza è quella di un’esperienza fenomenologica da vivere a contatto diretto con l’esteso deserto peruviano (per quanto riguarda i disegni stilizzati), o con un angusto vano spaziale delimitato da alti muri (proprio delle costruzioni labirintiche).
Se la matrice comune che connette gli antichi tracciati alle strutture dedaliche è dunque un’estensione nello spazio, ciò che li differenzia è l’approccio a tale “vuoto tangibile”: nel primo caso un’apertura – priva di delimitazioni – verso il paesaggio peruviano, nel secondo una vera e propria enclosure rispetto all’esterno.

Dure idee di pietra: il caso di Celle e Pontevedra
Robert Morris negli anni Settanta si apre al contesto paesaggistico: un intervento in grande scala (Observatory) e un testo critico (“Aligned with Nazca”) rappresentano due momenti significativi di questa proiezione dell’attività artistica da contesti interni di musei e gallerie verso lo spazio aperto e la natura.
Nei due decenni successivi l’artista ritorna, in più di una occasione, ad intervenire nel paesaggio attraverso la realizzazione di vere e proprie costruzioni dedaliche che attraggono lo spettatore in spazi isolati ed enucleati – ma non per questo privi di legami rispetto al contesto naturale circostante – quali possono essere considerati i labirinti litici di Celle e Pontevedra.
Il 12 giugno del 1982 ha luogo nella Fattoria di Celle a Santomato di Pistoia, l’inaugurazione degli “Spazi d’arte”: quindici installazioni – nove all’aperto e sei all’interno della villa dall’attuale aspetto settecentesco – concepite e realizzate da artisti contemporanei di diverse nazionalità (Dennis Oppenheim, Alice Aycock, Anne e Patrick Poirier, Mauro Staccioli, Richard Serra, Dani Karavan, Robert Morris …) invitati dal collezionista Giuliano Gori, industriale pratese e proprietario della stessa tenuta. Le opere presentate costituiscono il primo nucleo di una collezione d’arte, di alto valore internazionale, che negli anni si arricchirà notevolmente di artefatti artistici collocati sia negli spazi esterni che interni del complesso residenziale.
Risale alla primavera del 1982 la prima visita di Morris alla Fattoria di Celle. Il progetto ideato in tale occasione prevede la realizzazione di un labirinto in marmo di Trani, marmo serpentino e cemento, eretto su uno specifico sito all’interno del vasto parco romantico, personalmente scelto e tracciato dall’artista.

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Robert Morris, Labirinto, 1982

La costruzione si sviluppa al centro di un piccolo prato in declivio, circondato da fitta boscaglia. Ad una prima fruizione si mostra come un corpo quadrangolare, delimitato da alte pareti e caratterizzato da una sottolineata alternanza cromatica di fasce orizzontali bianche e verdi. Un angusto vano d’entrata, tale da consentire l’accesso ad una sola persona per volta, immette lo spettatore all’interno di un corridoio obbligato che si snoda in pendenza tra angoli fortemente acuti. Il traguardo di questo lungo e tortuoso tragitto unidirezionato della lunghezza di sessanta metri, è costituito da un muro bloccante, un cul-de-sac, che obbliga il fruitore a tornare sui propri passi.
In uscita della struttura, viene offerta una differente lettura dell’opera rispetto a quella proposta mediante l’esperienza diretta nel disorientante sentiero. Una pedana rialzata, situata nelle vicinanze e celata alla vista dagli alberi, permette di comprendere come la forma volumetrica del labirinto non sia originata da un quadrilatero bensì di un triangolo equilatero e, inoltre, notare come il punto di origine e quello finale siano adiacenti e divisi tra di loro solo da un muro.
Numerosi gli spunti di riflessione offerti dal labirinto realizzato da Robert Morris in questo parco di sculture, a partire dal dialogo con il contesto naturale nel quale si inserisce. Nonostante la struttura dedalica non sia una “finestra architettonica” aperta verso il contesto paesaggistico, riesce ad intessere con questo profonde relazioni.
Bruno Corà, nel saggio “Robert Morris: il dono che scioglie il nodo” dedicato ai lavori dell’artista americano presenti a Celle, si sofferma sull’importanza del sito scelto per edificare tale opera: la selva.9
La collocazione rievoca immediatamente i primi versi della Commedia di Dante Alighieri, che Morris ha posto in apertura del breve commento testuale al labirinto di Celle, pubblicato nel catalogo della collezione Gori. Riletto alla luce dell’incipit del celebre componimento trecentesco, la costruzione dedalica riceve un significato ulteriore rispetto al mero spazio fisico, divenendo metafora di una maturazione individuale a seguito di un disorientante smarrimento.
Oltre alla relazione significante con l’ambiente naturale, un ulteriore aspetto che caratterizza tale “dispositivo d’inganno” è l’evidente riferimento alle architetture romaniche a fasce marmoree bianche e verdi innalzate in particolar modo in Toscana, quali la chiesa di San Giovanni Fuorcivitas e il battistero di San Zeno, entrambi a Pistoia.

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San Giovanni Fuorcivitas
Battistero di San Zeno

L’architetto e critico Luigi Moretti, in un articolo del 1950 pubblicato sulla rivista Spazio da lui stesso diretta, dedicato alle trasfigurazioni delle strutture murarie in termini formali astratti, ha evidenziato come l’alternarsi delle fasce colorate conferisca alle pareti delle architetture romaniche una sorta di pulsazione vitale: “Il seguirsi delle spartizioni a fasce o a superfici orizzontali bianche e verdi o nere, degli alternati bagliori e oscurità, del precipitarsi della luce e ritrarsi in tagli abissali, è puro ritmo. I corsi delle pietre sulle pareti così trasfigurate vanno letti lentamente l’uno appresso l’altro; si sentirà allora scandire il loro battito sonoro”10.
Tale riflessione è in grado di gettar luce sulle motivazioni che hanno indotto l’artista americano a trasferire e reinterpretare, in maniera del tutto originale, l’astrazione bicromatica propria delle architetture del passato, ad una struttura labirintica. Il ritmo crescente del serrato e angusto passaggio, generato dal progressivo avvicendarsi di fasce chiare e scure, è infatti funzionale ad accrescere nello spettatore una sensazione di vertiginoso disorientamento.
Questo forte senso di illusività – intensificata rispetto alle precedenti strutture labirintiche mediante il ritmico ripetersi delle fasce cromatiche dall’andamento orizzontale e continuo – viene resa testualmente da Morris attraverso uno stile sintetico e incalzante: “Giri senza fine cercando un centro che continua a sfuggire. L’inseguimento, con o senza filo, minaccia un collasso, uno scivolamento, un perdersi ad ogni giro d’angolo. Ogni passaggio: una strategia, un calcolo, un abbandono, un recupero, una ri-iniziazione. Un possibile orientamento ruota sopra una precessione elusiva. La vertigine minaccia”11.
Alla distanza di circa quindici anni dalla costruzione dedalica di Celle, Robert Morris realizza un ulteriore dispositivo spaziale, immerso nel paesaggio naturale, tale da offrire nuove opportunità di riflessione concettuale e intensità emotiva di fruizione: un labirinto litico le cui radici affondano nella storia geologica e culturale della provincia spagnola di Pontevedra.

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Robert Morris, Pontevedra Labyrinth, 1999

“Isla de Esculturas” è il progetto più generale all’interno del quale tale opera prende vita: una striscia di terra sulle sponde del fiume Lèrez nella quale venti artisti di varie nazionalità – così come è avvenuto precedentemente nel parco di Celle – sono stati invitati a realizzare interventi site-specific dialoganti col contesto paesaggistico.
L’intento di Rosa Olivares e Anton Castro, curatori del progetto, è quello di realizzare un “paesaggio contemporaneo” nel quale il passato e il presente appaiano come due dimensioni temporali imprescindibilmente e coerentemente fuse tra di loro; si ricerca una trasformazione del contesto portatrice di legami con le antiche tracce sedimentate nel territorio galiziano.
Il tridimensionale “segno” impresso da Robert Morris sul terreno dell’isola sembra inscriversi pienamente all’interno della concezione di partenza che soggiace all’idea di questo “paesaggio atemporale di sculture”.
La fonte d’inspirazione dell’opera appartiene infatti ad un remoto passato; un passato distante circa tremila anni e fissato nell’incisione di un labirinto su una roccia granitica a San Xurxo do Monte, in provincia di Pontevedra, poco distante dal sito dell’intervento morrissiano.
Così come era avvenuto per il tracciato pavimentale di Chartres, anche l’incisione labirintica viene reinterpretata e rielaborata dall’artista: ridotta nel numero di sentieri (da sette a cinque), trasposta dalla dimensione bidimensionale a quella tridimensionale per consentirne l’attraversamento. L’antico tracciato viene trasformato così in un artefatto in grande scala (9×12 metri) dalla forma ovoidale, impiantato in una vasta area circondata da alberi di eucalypto. Le alte pareti che lo strutturano, costituite da lastre di pietra alte due metri e disposte verticalmente, delimitano un percorso unidirezionale che, a differenza del labirinto di Celle, non si snoda tra angoli fortemente acuti ma tra sinuose e morbide curve.

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Robert Morris, Pontevedra Labyrinth, 1999

La materia scelta da Morris per erigere tale costruzione è un’ulteriore omaggio al territorio nel quale l’opera è radicata: il granito. Quest’ultimo rappresenta il substrato simbolico della regione galiziana: parte integrante del tessuto geologico sin dalla sua formazione nell’era neolitica, nonchè perno dell’economia contemporanea della provincia di Pontevedra, tra i maggiori centri al mondo nella produzione ed esportazione di questo materiale.
Ad accomunare i labirinti di Celle e Pontevedra non concorre, dunque, esclusivamente la collocazione in un contesto naturale ma anche la scelta del materiale lapideo, funzionale alla resistenza e, quindi, alla durata delle opere stesse sottoposte incessantemente all’azione “erosiva” da parte degli agenti atmosferici.
A differenza del legno, impiegato da Morris a partire dalle prime sperimentazioni scultoree sino alle strutture labirintiche in grande scala e quasi tutte smantellate il giorno stesso di chiusura della mostra, la pietra offre una “mole” corposa e dura, sfida il tempo, anela all’eternità.
Gli spazi dedalici di Celle e Pontevedra sono stati, dunque, costruiti per durare, per fissare e materializzare indelebilmente forme ed esperienze labirintiche tridimensionali, “idee dure come pietre”12 mai completamente cancellate dalla mente dell’uomo e dallo stesso Morris, che ne ha fatto un tema cardine della sua riflessione critica ed artistica.

di Alessandra Acocella

Leggi anche
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte I)
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte II)

Note
1 Rosalind Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, pp. 283-297
2 Rosalind Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, p. 288
3 Rosalind Krauss, “La scultura nel campo allargato” (1978) in, L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti (1985), Roma, Fazi, 2007, p. 291
4 Il lavoro è stato distrutto l’anno successivo e ricostruito nel 1977 a Flevoland, sempre in Olanda; un altro osservatorio temporaneo è stato inoltre eretto al Walker Art Center di Minneapolis.
5 Achille Bonito Oliva, “Robert Morris intervistato da Achille Bonito Oliva”, Domus, (1972), n.516, p.44
6 Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (1977), Milano, Mondadori, 2000, p. 282
7 Robert Morris, “Aligned with Nazca”, Artforum, XIV (1975), n.2, pp. 26-39
8 Geoglifi delineati durante la fioritura della civiltà di Nazca (300 a.C.-500 d. C.) nell’altopiano arido che si estende per circa cinquanta chilometri nel Perù meridionale. Le linee, tracciate asportando dal suolo lo strato superficiale di ciottoli vulcanici in modo tale da creare un contrasto col pietrisco sottostante (di colore più chiaro) vanno a formare più di 800 disegni stilizzati.
9 Bruno Corà, “Il dono che scioglie il nodo” in Bruno Corà, Robert Morris, Robert Morris: un percorso verso il centro del nodo (con una testimonianza dell’artista), Santomato di Pistoia, Fattoria di Celle, 1995, p. 19
10 Luigi Moretti, “Trasfigurazioni di strutture murarie”, Spazio, II (1950), n. 3 in Federico Bucci e Marco Mulazzani (a cura di), Luigi Moretti. Opere e scritti, Milano, Electa, 2000, p. 168
11 Robert Morris, “Labirinto” in Arte ambientale: la collezione Gori alla Fattoria di Celle, Torino, Allemandi, 1993, p. 240
12 Robert Morris, “Labirinto” in Arte ambientale: la collezione Gori alla Fattoria di Celle, Torino, Allemandi, 1993, p. 240

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