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7 Ottobre 2008

Scultura

SPAZI DEDALICI
I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
(Parte I)

spazi_dedalici_1.jpg
Robert Morris e il Labirinto di Celle

Introduzione
Il tema deve molto alla visione di un’opera realizzata da Robert Morris nella Fattoria di Celle a Santomato di Pistoia: un labirinto a fasce marmoree bianche e verdi che ogni visitatore del parco, nel proprio incedere, si trova di fronte come una presenza forte, caratterizzata nella volumetria e nelle sue superfici bicromatiche. Tale artefatto – compatto e attrattivo a distanza, disorientante poi nella sua fruizione ravvicinata – ha stimolato il desiderio di approfondire il tema dedalico, posto a costituire una trama di rimandi molto vasta ed interconnessa all’interno della multiforme opera di Morris.
Se quest’ultima è stata caratterizzata, fin dai suoi esordi, da percorsi molteplici ed imprevedibili, da cambiamenti inaspettati e apparentemente incoerenti rispetto alle ricerche precedenti, leggiamo nel tema del labirinto – mai completamente rimosso dall’immaginario dell’artista – una chiave d’accesso e d’interpretazione del lungo itinerario di Robert Morris, in grado di riconnettere – in qualche modo – l’intera opera di una delle figure più controverse ed interessanti della cultura artistica contemporanea.
Il percorso interpretativo proposto dal saggio è articolato in quattro sezioni.
La prima, di natura introduttiva, individua le due dimensioni intorno a cui gravitano gli spazi dedalici concepiti da Morris: quella fisica dei “tridimensionali dispositivi d’inganno” indirizzati ad un coinvolgimento attivo dello spettatore e – simmetricamente – quella ideale delle “astrazioni labirintiche” disegnate su supporti bidimensionali.
All‘incipit interpretativo seguono le successive sezioni.
La seconda è dedicata agli artefatti disorientanti in grande scala (corridoi, installazioni di specchi, veri e propri dedali) collocati negli spazi espositivi; la terza ai labirinti litici inscritti paesaggisticamente nei parchi di Celle e Pontevedra. Entrambe le categorie di opere si dimostrano capaci di produrre esperienze multisensoriali dilatate nello spaziotempo reale.
Nell’ultima sezione – la quarta – diventano protagonisti i disegni labirintici inscritti in una dimensione altra, sospesa, astrattiva. Dalla materia si ritorna, così, al mentale.

L’AMBIVALENZA DEL LABIRINTO
Un duplice punto di vista

Del termine labirinto, nella sua accezione spaziale, può essere data una duplice definizione, a seconda del punto di vista adottato nel rapportarsi ad esso.
Nell’ottica dell’artefice il labirinto è una struttura architettonica della quale egli “ha equilibrato l’effetto di inganno e l’effetto di seduzione negli aggrovigliamenti, nelle ramificazioni, nelle giravolte e nei ritorni”1.
Al contrario per chi vi s’imbatte, ignaro del disegno complessivo dell’intricato percorso, il labirinto è lo spazio che si mostra progressivamente per parti davanti ai suoi occhi, una volta varcata la soglia ed iniziato l’ignoto cammino.
Il punto di vista del creatore, totalizzante e onnicomprensivo, è paragonabile a quello di un osservatore che contempla da un luogo distante e sopraelevato. La visione dall’alto riduce l’articolata figura geometrica ad un insieme afferrabile nella sua complessità, ne svela l’intima logica e composizione. I muri fungono da linee lungo le quali si sposta lo sguardo, mentre lo spazio da essi delimitato si palesa come il sentiero da percorrere. Quest’ultimo, nel labirinto in senso proprio, è lungo e tortuoso ma non offre possibilità di scelte nel suo intero svolgimento che conduce inevitabilmente al centro; tale caratteristica lo differenzia dall’intrico di vie (in inglese maze; in tedesco Irrgarten) il quale presenta numerose alternative e vicoli ciechi.
Se la visione dall’alto presuppone un osservatore desituato rispetto alla dinamica spazio-temporale propria dell’esperienza labirintica, “quella dal basso suggerisce un’idea di partecipazione e comunità, l’effetto fenomenologico di camminare attraverso lo spazio”2. Questa seconda condizione, comune ad ogni uomo in azione nella realtà fisica, rappresenta l’elemento significante e specifico del labirinto, “dispositivo d’inganno” teso al disorientamento dell’uomo.
Il tratto distintivo che contrappone la condizione dell’esperienza fruitiva da quella di presa di distanza dell’artefice è dunque da rintracciare nell’immersione – priva di coordinate – in uno spaziotempo reale: l’esploratore sarà infatti all’oscuro della geometria complessiva del luogo, quanto della durata del percorso da compiere. Per soddisfare la sua brama di conoscenza non gli è concessa che l’azione dell’esplorazione, dell’immettersi in uno spazio angusto e isolato da scoprire esclusivamente attraverso l’esperienza diretta. Una volta raggiunto il centro, il viaggiatore potrà solo girare intorno ad esso ed invertire il senso di marcia, ritornando sui propri passi per uscire – alla fine – dalla medesima porta dalla quale era iniziata la sua esplorazione.
Riemergere dal labirinto assume un valore ben più profondo del semplice ritorno al mondo esterno. Fuoriuscire dall’angusto passaggio simboleggia il raggiungimento di un traguardo catartico, una sorta di rinascita spirituale, una proiezione in un’esistenza più consapevole della precedente, ma pur sempre relativa, in quanto sarà continuamente rimessa in questione dai tanti meandri labirintici o prove che accompagnano tutta la vita.
L’esperienza del labirinto contiene, dunque, nella sua ultima essenza “la proposta di una rigenerazione attraverso il percorso meditativo e “critico” (e anche di “crisi”) di un cammino intricato e pericoloso”3.

Gli spazi dedalici di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica
L’opera di Robert Morris, accompagnata fin dagli esordi da una lucida coscienza critica, si è contraddistinta a partire dagli anni Sessanta per la sua mutevolezza e diversificazione (sia nei mezzi che nei contenuti), al punto da sfuggire ad ogni definizione lineare indirizzata a ridurne la complessità.
In questa sorta di continuous project altered daily, il labirinto costituisce una costante, un tema mai completamente cancellato dalla memoria dell’artista. Tale interesse al tema dedalico si sviluppa in un arco di tempo molto dilatato, che abbraccia l’intera carriera artistica di Morris – da Passageway del 1961 al Pontevedra Labyrinth del 1999 – e viene indagato, da un lato, nelle installazioni in grande scala all’interno degli spazi espositivi o nel paesaggio, e dall’altro nella produzione grafica.
Nella mente creatrice dell’artista la riflessione sul tema del labirinto è dunque un qualcosa che affiora e riaffiora. Per comunicare e fissare tali idee in costante evoluzione Morris si muove così su di una duplice traiettoria: quella della rappresentazione concettuale, ideale, nei disegni fissati su supporti bidimensionali e quella della realizzazione concreta di veri e propri labirinti nei quali è possibile imbattersi.
Infatti le “strutture d’inganno” realizzate dall’artista – Passageway (1961); i dedali di specchi; i labirinti di Philadelphia (1974), Celle (1982), Lione (1999) e Pontevedra (1999) – acquistano senso solo nella dimensione “orizzontale” del passaggio da parte del fruitore all’interno dell’opera, come tende a precisare lo stesso Morris: “A labyrinth is comprehensible only when seen from above, in plan view, when it has been reduced to flatness and we are outside its spatial coil. But such reductions are as foreign to the spatial experience as photographs of ourselves are to our experience of our selves”4.
L’esperienza “iniziatica” compiuta dall’esploratore all’interno dell’arduo cammino labirintico viene così ricreata da Morris al fine di imprimere in ogni spettatore questo disorientamento “rigenerativo”, le cui radici affondano nei miti del passato.
Ma non è solo tra le mura di veri e propri dedali che l’artista indaga le modalità di un coinvolgimento attivo da parte dello spettatore. A partire dai primi anni Sessanta il rapporto col contesto del fruitore costituisce una riflessione costante e radicale dell’artista americano – influenzata dalla Fenomenologia della percezione di Merleau Ponty (1945) e da forme espressive quali il teatro e la danza sperimentale – molto evidente in opere che, nonostante non possano essere considerate labirinti in senso letterale, ne indagano la medesima condizione: quella dello scopritore.
Al pari di quest’ultimo che non può comprendere la complessa geometria del luogo nel quale si sta addentrando da un unico punto di vista, lo spettatore che si rapporta alle “labirintiche” opere di Morris non può far affidamento su conoscenze aprioristiche o logiche per cogliere le forme nella loro eterogeneità.
La “scompaginazione” di un punto di vista privilegiato costituisce un fondamentale snodo concettuale all’interno della citata Fenomenologia della percezione, che Robert Morris ha avuto modo di leggere nella sua fase di formazione. Il filosofo francese afferma che un oggetto non è mai risolvibile in un’univoca prospettiva (geometrale), ma è sempre percepito da diversi punti di vista – in base alla mutevole posizione assunta dal nostro corpo in un dato momento e in un dato luogo – acquistando significati e forme sempre variate.
L’obiettivo che Morris si pone, a partire dalle opere minimaliste realizzate intorno alla metà degli anni Sessanta, è proprio la messa in scacco dei limiti del pensiero oggettivo denunciato da Merleau Ponty che fa economia delle specifiche condizioni sia spaziali che temporali. Le diverse strategie impiegate a tal fine agiscono nel campo propriamente tridimensionale – quello della gestalt (la forma) – per dimostrare come “even its most patently unalterable property (…) does not remain constant”5.

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Robert Morris, Untitled (Battered Cubes), 1965

Untitled (Battered Cubes) del 1965 consiste in quattro parallelepipedi identici in fibra di vetro, disposti direttamente sul pavimento; due lati di ciascun “cubo” si espandono minando la solidità della forma. Attraverso l’alterazione della gestalt l’artista nega all’osservatore la possibilità di comprendere l’installazione attraverso una prospettiva unica; al fine di ottenerne una dinamica comprensione sarà necessario muoversi intorno ad essa e percepirla attraverso una molteplicità di punti di vista.
Una diversa strategia dell’artista indirizzata a rompere col tradizionale rapporto unidirezionale di ricezione – dall’oggetto artistico verso l’osservatore – è quella di reiterare più volte la stessa forma e collocare le copie in posizioni diverse.

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Robert Morris, Untitled (Three L-Beams), 1969 (1965)

Celebre è l’esempio di Untitled (Three L-Beams) del 1965 costituito da tre identici solidi ad L di compensato disposti sul pavimento della galleria: il primo in verticale, il secondo disteso a terra e il terzo in equilibrio sulle due estremità col fine di rendere incomprensibile l’identicità della forma di partenza. Scrive Rosalind Krauss a proposito di questo strategico dispositivo artistico di “disorientamento”: “Morris ci fa così sentire che il fatto della somiglianza degli oggetti ha a che vedere con una logica preesistente all’esperienza poichè, nel corso dell’esperienza, nell‘esperienza, le L mettono in scacco questa logica della somiglianza e sono “diverse”. La loro “identità” ha a che vedere solo con una struttura ideale, un’assenza interna invisibile; la loro “differenza” invece partecipa dell’esteriorità, sorge nel mondo della nostra esperienza”6.
La negazione di un punto di vista privilegiato porta lo spettatore a compiere un passaggio nello spazio e nel tempo reale al fine di strutturare percettivamente la forma attraverso continui mutamenti di prospettiva, esperienza che lo accomuna all’esploratore, il quale – privo di mappa o di bussola – non può far altro che addentrarsi all’interno del territorio labirintico per svelarne l’intimo disegno.
L’estetica modernista della pura presenza, di una sorta di incontro epifanico tra opera d’arte e spettatore, cede così il passo ad una nuova pratica artistica che sembra “attendere lo spettatore (…) e ingaggiarlo in un rapporto temporalmente dilatato e virtualmente illimitato, che frantuma la soggettività nell’infinita molteplicità sensoriale del mondo fisico”7.
Al disorientamento iniziale, causato da un abbandono delle solide coordinate cartesiane su cui poggia la nostra razionale esistenza, seguirà un’esplorazione attiva e ricettiva che, se condotta fino in fondo, conferirà al fruitore un nuovo livello d’indipendenza rispetto al reverenziale oggetto artistico e alla stessa realtà: “alla cosa e al mondo è dunque necessario presentarsi come “aperti” (…) promettere sempre altro da vedere”8.
Tale mondo fenomenico, in continuo mutamento, ha rappresentato il terreno d’azione per articolare la riflessione di Morris sul tema dedalico al fine di agire sul punto di vista del fruitore. Per poter essere dispiegato, ha necessitato la creazione di dispositivi artistici tridimensionali, concreti e articolati al punto tale da essere attraversati.
Nonostante l’opera dell’artista – e più specificatamente la riflessione sul tema del labirinto – si sviluppi prevalentemente in quello che Rosalind Krauss ha definito “il campo allargato” della scultura – che abbraccia adesso altre categorie quali l’architettura e il paesaggio – non può essere trascurata l’importanza che Morris dedica ai disegni. Realizzati attraverso una varietà di tecniche (grafite, carboncino, inchiostro…), vanno considerati “nella loro totalità – afferma Thomas Krens – come un testo parallelo all’opera scultorea, tanto necessari per la sua comprensione quanto la scultura lo è per la comprensione dei disegni”9.

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Robert Morris, Investigations, 1990

L’artista infatti non subordina tale pratica al ruolo di mera progettazione; lo dimostrano le serie grafiche dedicate, più o meno esplicitamente, al tema del labirinto che non vanno interpretate come appendici ai “dispositivi d’inganno” realizzati nelle tre dimensioni, ma come opere d’arte autonome.
La dimensione nella quale si inscrivono i disegni è infatti ben altra cosa rispetto alla realtà fatta di oggetti fisici tridimensionali, il cui significato è afferrabile esclusivamente attraverso l’esperienza diretta. Il mondo delle immagini rappresentate sulla superficie bidimensionale del foglio è quello dell’astrazione, di un allontanamento dalla realtà fisica per poterla osservare, “concepire” da una certa distanza. È la dimensione virtuale nella quale si inscrive la facoltà creatrice dell’artefice, di colui che indaga le “contingenze labirintiche” del mondo fenomenico nel quale siamo immersi.

di Alessandra Acocella

Leggi anche
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte II)
SPAZI DEDALICI I labirinti di Robert Morris tra realtà ideale e realtà fisica (Parte III)

Note
1 Pierre Rosenstiehl, “Labirinto” in Enciclopedia Einaudi, vol. VIII, Torino, Einaudi, 1979, p. 7
2 Brian Wallis “Prefazione” in Jeffrey Kastner (a cura di), Land art e Arte ambientale, London, Phaidon, 2004, p. 30
3 Paolo Santarcangeli, “Labyrintyca 1981” in Achille Bonito Oliva (a cura di), Luoghi del silenzio imparziale. Labirinto contemporaneo (catalogo della mostra, Milano, Palazzo della Permanente, giugno-agosto 1981), Milano, Feltrinelli, 1981, p. 53
4 Robert Morris, “Aligned with Nazca”, Artforum, XIV (1975), n.2, p. 36
5 Robert Morris, “Notes on Sculpture, Part 2”, Artforum, V (1966), n.2 in Robert Morris, Continuous project altered daily: the writings of Robert Morris, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1993, p. 16
6 Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (1977), Milano, Mondadori, 2000, p. 268
7 Alessandro Nigro, Estetica della riduzione. Il Minimalismo dalla prospettiva critica all’opera, Padova, Cleup, 2003, p.40
8 Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2005, p. 43
9 Thomas Krens “Introduzione” in Thomas Krens (a cura di), I disegni di Robert Morris (catalogo della mostra, Milano, Padiglione d’Arte Contemporanea, 18 aprile-28 maggio 1984), Milano, Nava, 1984, senza pagina

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