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Orfica, surrealistica*
Casa Malaparte a Capri e Adalberto Libera

Casa Malaparte a Capri e Adalberto Libera
All’ennesimo promontorio, la stradicciola del Pizzolungo curva e quasi torna su sè medesima e, ecco, là in fondo, casa Malaparte occupare la sommità di capo Massullo. Ci sentiamo Ruskin in vista della cattedrale gotica. Ricapitoliamo il cammino; registriamo l’ora e la circostanza e non le scorderemo; mettiamo a fuoco il sito e l’architettura.
Da questo belvedere, il capo appare come avvallamento della costa cui succede il monte. L’avvallamento è profondo e la roccia sembra staccarsi, diventare faraglione errante nel mare di Capri. Casa Malaparte appare come semipiramide muraria con scalea rovesciata e confitta nel suolo della sella naturale, dalla quale si sviluppa un parallelepipedo color rosso pompeiano. La copertura è piana, pianissima, parallela alla distesa acquorea. Sul tetto-terrazza, un bianco muretto ellittico e calante. Fossimo venuti tempo fa, avremmo guardato e pensato che l’edificio era la concretizzazione del progetto che Libera nel 1938 allestì per conto di Malaparte e il cliente poi rimaneggiò molto. Ma adesso, dacchè siamo al corrente delle scoperte di Maria Ida Talamona1, si affaccia alla mente una versione diversa.
Nel Natale 1937, condotto dall’amico ambasciatore Rulli, lo scrittore Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Suckert), si era recato fin sulla punta. Rapito dalla bellezza del luogo e del panorama, già nel gennaio 1938 aveva comprato un tratto di costa, comprensivo della scoscesa parete rocciosa, secata dalla stradicciola volgente a Matromania, nonchè della rupe impervia tuffata nel mare. Non si era limitato a stupire Rulli, gli aveva anche rivenduto la porzione alta e accessibile del Massullo. Aveva riservato a sè il promontorio inaccessibile. Si era consultato con il capomastro capriota Adolfo Amitrano. Fattosi coraggio, aveva deciso di raccogliere la sfida del posto, di costruire un’abitazione. Rulli lo aveva imitato, ovviamente relativamente all’area di sua proprietà.
Dietro suggerimento di Orfeo Tamburi, art director di “Prospettive”, la rivista fondata e diretta da Malaparte, Malaparte aveva incaricato del progetto Adalberto Libera, che del resto si raccomandava da solo, professionista colto, emergente (quanto e più dei giovani colleghi di fede razionalista). All’esecuzione avrebbe provveduto l’impresa Amitrano.
Di febbraio e di marzo, Libera vagliò il caso e studiò la proposta per quel che occorreva. Il progetto era disegnato in scala 1/100 e prevedeva un volume elementare, prisma puro, convenzionale, tipico della ricerca razionalista, diminuito però verso terra della porzione parallelepipoidale, onde dare luogo alla terrazza. Erano conseguenti le piante e gli schemi distributivi: al piano superiore, in successione lineare, la terrazza e il salone; al pianterreno il pettine delle camere, e, sfalsata di +0,50, la cucina. Semplici le caratterizzazioni architettoniche: copertura a volticine ripetute, prospetti scompartiti regolarmente, zoccolo di bugne rustiche. Progetto di sostanza analoga alla qualità del contemporaneo progetto del palazzo dei Congressi all’E42 (in particolare per il rapporto del corpo sopraelevato con le terrazze speculari). Capace di renderlo capostipite della famiglia dei suoi lavori, che avrebbero insistito sulla forma tipologica lineare. Insomma inaugurativo di uno dei molti liberiani itineraria perfectionis. Inoltrò i disegni prima al Comune; poi, considerato che l’isola stava per sottoporsi a piano paesistico di iniziativa ministeriale e il Massullo era classificato inedificabile, al ministero dell’Educazione nazionale/Soprintendenza di Napoli.
Al 24 aprile, Libera fu pregato da Malaparte di spedire “la copia del piano” a Capri, da Amitrano, che ne aveva bisogno per aprire il cantiere2. Forse Libera non potè, forse non volle, allestire “il piano”, diciamo pure l’esecutivo, pertanto non accontentò il committente. Più probabilmente, si mise al lavoro e mandò l’esecutivo con ritardo tollerabile3. Ma non si peccherà di psicologismo sostenendo che, in entrambi i casi, Malaparte ebbe la reazione seguente. Mentre continuava a brigare presso Bottai ministro e i funzionari affinchè il progetto fosse approvato – e avrebbe riscosso successo: la Soprintendenza napoletana avrebbe concesso il nullaosta, in deroga al piano paesistico, conseguentemente il Comune avrebbe concesso la licenza edilizia – Malaparte era deluso, tradiva scontento, affettava propositi di fare a meno di Libera. Circa alla metà dell’anno il cantiere progrediva. Intanto Malaparte rimuoveva la figura di Libera, allontanava l’idea della sua fatica. Non si sbaglierà troppo affermando che, se andò per il sopralluogo, Amitrano lo accolse freddamente. Mi viene in mente che Malaparte, cercatore di identità di artefice, avesse in animo di immedesimarsi in Eupalinos, l’architetto greco, vissuto durante il VI secolo a.C., che Valèry nell’omonimo dialogo filosofico aveva reinventato assegnandogli ragione e irragione, pensiero artistico, logica e saperi artigianali4. Era Eupalinos di Valèry, figura orfica, reinterpretazione del ruolo del mitico Orfeo – che, sonando la lira, sapeva addolcire gli uomini, ammansire le bestie, chinare gli alberi, trascinare le pietre, vale quanto dire, con i mezzi della poesia, dare ordine al disordine naturale, dare forma all’informe, architettura alla materia. Motivo per cui la rimozione non dovette essere fine a sè, ma all’ottenimento dello spazio per poter realizzare il suo desiderio.
Malaparte sarebbe stato architetto – di quelli che, sulla scorta dell’ orfismo ricco di componenti esoteriche e sul filo del sentimento lirico, ridisegnano la natura, ricompongono la realtà, e, dopo, attingono alla mimesi per avere l’opera. Per lo meno, si sarebbe vantato di essere stato l’architetto sui generis della casa Malaparte sui generis, secondo quanto avrebbe richiesto il proprio modulo creativo (valutato senza categorie estetiche, con categorie morali, negativamente). Basti leggere un paio di pagine del romanzo memoriale La pelle5. Malaparte finge che, nella primavera 1942, il maresciallo Rommel gli abbia reso visita a Capri. Rommel e Malaparte avevano compiuto il giro della villa conversando. Si erano fermati “nell’immenso atrio dai finestroni aperti sul più bel paesaggio del mondo”, Rommel stava per prendere congedo, ma esitava. Dopo un attimo di silenzio, sbottò e chiese all’ospite se avesse acquisito la casa già costruita oppure fosse stato lui a progettarla e a costruirla. L’ospite disse che sì, la casa gli preesisteva (bugia), però lui aveva “disegnato il paesaggio”. E tracciò in aria il mezzo cerchio, dai faraglioni alla vertiginosa parete di Matromania.
La mappa indica il percorso ancora lungo tutta la cala del Massullo, e, al bivio, la sinuosa linea della discesa alla villa, a quota 25 sul mare. Pieghiamo la carta e ci incamminiamo. Mentre scendiamo, viene alla mente lo scritto di Malaparte, la relazione, una relazione sulla casa del Massullo – del genere delle relazioni con le quali gli architetti accompagnano i loro progetti6.
Malaparte esordisce dichiarando di aver teso all’obbiettivo alto: il ritratto architettonico di sè e della personalità malapartiana. Stimandosi uomo duro, strano, schietto, senza trucco, la dimora sua sarebbe stata dura, strana, molto moderna. Ma l’uomo era anche memoria della propria esistenza, ad esempio del periodo del confino a Lipari, e l’architettura ne avrebbe portato il segno. Continua riferendo del procedimento, che fu adeguato e degno di antico rituale. L’esplorazione della roccia palmo a palmo, per trarne l’oroscopo dell’architettura. La credenza che l’architettura sarebbe stata un unicum mediterraneo, nella misura in cui lo erano i templi isolati dell’Attica a picco sull’Egeo, mentre non avrebbe intrattenuto rapporti con l’ambiente locale, l’edilizia pittoresca di Capri, Anacapri, Marina Piccola, Marina Grande (che pure allora pretendevano maestra di stile). La collaborazione stretta con il capomastro, artigiano, oracolo, in opposizione agli architetti e agli ingegneri, buoni esclusivamente per le “questioni legali”. La considerazione del cantiere come autentico progetto. L’assiduità sui lavori. L’amore della costruzione. L’entusiasmo del costruito.
Malaparte riferisce di aver orientato l’edificio con gli angoli a tagliare i punti cardinali e le direzioni dei venti prevalenti, il greco e lo scirocco. Di avere mutuato il taglio volumetrico dell’architettura dalla conformazione del Massullo, la semipiramide dalla depressione, il parallelepipedo dal pianoro terminale (tralascia la mediazione determinante del progetto Libera). Precisa di aver voluto la pietra cavata dal posto a modo di materiale costruttivo (non menziona il cemento, i tondini di ferro, la calce, i mattoni, che trasportarono con le barche).
Arriviamo alla biforcazione, dove trovasi la targa di terracotta con l’iscrizione Fondazione Giorgio Ronchi (in sostituzione dell’originaria Casa come me). Prendiamo a scendere per il sentiero, pieno di scalette di raccordo. Distogliamo spesso gli occhi dagli incanti del paesaggio per fissare il tracciato. Non a causa di qualche perversione estetica, bensì perchè aiuta a riflettere. Che cosa pensiamo? Che costruirono il sentiero nel 1938 o nel 1939, in contemporanea con la costruzione della villa; e il manufatto garantiva il collegamento tra la villa e la città alta di Capri.
Avessimo noleggiato una barca e navigato sino alla cala del Fico, ora saremmo approdati al molo minuscolo e ci arrampicheremmo per la scala di cemento. Staremmo pensando Fanno il molo e la scala nello stesso periodo; il sistema garantisce il collegamento tra la villa e i porti dell’isola. Più in basso capita di incontrare dei fili che scendono insieme a noi, i cavi della luce e del telefono. Fecero subito le istallazioni e, intanto che il cavo della luce assicurava il funzionamento moderno di Casa come me, il cavo del telefono metteva in contatto Casa come me con le città italiane e europee. Allora, crediamo, la casa non era inaccessibile e, mancando l’ingrediente essenziale, non coincideva con l’eremo e non avrebbe dovuto possederne la veste; semmai fingeva l’inaccessibilità.
Il progettista divenuto abitante, affetto da protagonismo, aveva escogitato una terapia straordinaria. Si tratteneva laggiù a recitare la fuga, il ritiro, la solitudine, la meditazione e tutto il resto, ed era la maniera più sicura di chiamare la gente, i potenti, gli intellettuali europei, e le telefonate7. Nonchè l’auspicio migliore che un giorno sarebbe giunto l’occhio massmediologico, a scrutarlo.
Varchiamo il cancello. Ma scendiamo ancora e, un po’ più sotto, i nostri piedi toccano la piazzola pavimentata di cotto. E, come quando battono il fondo della piscina, siamo spinti verso l’alto, a salire la scalea triangolare frontistante. Sembra il bucranio stilizzato e rappresenta l’immagine più sintetica e conosciuta della casa.
Il percorso dovrebbe essere facile. Invece è difficoltoso. La scalea è abbastanza ripida e lunga: consta di trentatrè gradini ed è priva di pianerottolo per la sosta. Inoltre si riceve la sgradevole impressione che la meta si allontani, anzichè avvicinarsi; ciò per colpa della strombatura rovescia, simile a quella dell’Annunziata di Lipari8. La salita ha parecchio dell’iniziazione. Una volta sulla terrazza, versiamo nella condizione superumana e ci sentiamo ammessi alla liturgia. Oggi come ieri la scena non è limitata al grande solarium, ma sconfina nel cielo, nel mare, in ogni direzione. L’attore principale è il Sole e recita. L’attore recita fino alla metà del pomeriggio, quando tramonta dietro Tragara. Attore irresistibile, incontrastabile, nè contrastato dal personaggio inanimato come la vela impietrita, oppure da personaggi animati come un tempo lo scrittore, in vena di esibizioni, prodezze ciclistiche, ad esempio.
Procediamo in linea retta e guadagniamo l’orlo della pista. Non c’è il parapetto e sono attuabili solamente il dietrofront e il salto suicida. Voltarsi e intraprendere il tragitto a ritroso equivale a ridiventare uomini, invero architetti atti ad affrontare e decifrare episodi architettonici. Dal solarium senza ringhiere tubolari (avrebbero destato aure moderne) alla colonna senza capitello (unica concessione alla stilematica capriota); al muretto ellittico calante a includere la canna fumaria; alla scalinata triangolare assumente l’aspetto di cavea, volta alla scenafronte, il dirupo asperrimo (benchè imboschito di pini, lecci, cespugli). Ci pare, tale sequenza, il frutto della composizione orfica, lirica, modulata sopra il metro peculiare, riscontrabile nella metrica di qualcuna delle splendide rovine cui si riducevano le architetture classiche mediterranee9.


Salone di casa Malaparte
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Nella foto scattata da terra, databile alla primavera 1939, l’architettura è ormai finita al rustico e l’abitazione comincia ad assomigliare alla nave incagliata. Si nota la presenza di un vomitorio nella zona della cavea. In realtà, si trattava del passaggio utile al viavai dei muratori e dei materiali. Tutte le volte che Malaparte andava sul posto, si fermava a considerare l’apertura. Gli piaceva. La stimava, la giudicava il mezzo concreto della continuità del paesaggio naturale con l’interno della casa. E la candidava a ingresso assiale. Ma una volta Amitrano, devoto alla pratica, disprezzando le ragioni estetiche e tipologiche, osservò che l’acqua delle piogge invernali avrebbe trovato un varco troppo comodo e invaso le stanze del piano superiore. Conveniva finire i lavori, introdurre i mobili che sarebbero stati grossi, pesanti più delle pietre, e chiuderla10. Malaparte si lasciò convincere e, al momento opportuno, ordinò l’otturamento.
Di fatto, se tiriamo il bilancio della visita all’architettura orfica, abbiamo tutto, tranne la radice dell’intèrieur. Non sappiamo da dove entrare. Quanto all’ingresso, esso si trova sulla facciata sudoccidentale, insieme ad altre bucature, ricavate di netto dal muro intonacato (come nelle coloniche toscane amate dal pratese Malaparte e frequentate dagli architetti razionalisti a scopo più di ispirazione che di studio).
Apriamo la porta a cristallo unico e siamo nel vestibolo: ambiente di risulta, eppure nodo di qualsiasi itinerario interno. Già accedere al tinello significa compiere il primo viaggetto. Entriamo e gettiamo un’occhiata: piccola folie che, grazie al rivestimento e all’arredo di legno, la panca, il tavolaccio, la stufa maiolicata, induce a paragonare il panorama di là dal vetro, Matromania, con paesaggio dolomitico. Una possibilità è solcare il corridoio o spina distributiva delle camere da letto degli ospiti. Ne approfittiamo e ci rendiamo conto che si costituisce l’ospizio (parola di Malaparte), organismo tipologico netto, quanto la foresteria contemplata al pianterreno dal progetto Libera, quanto l’ostello delle ville augusto-tiberiane in cima ai picchi capresi, scavate dagli archeologi con un misto di passione e di terrore. Un’altra occasione è perlustrare il sottogradonata. La si coglie e si va nella cucina dove è l’orditura dei pilastri e delle travi inclinate di cemento armato. Di là si scende negli inferi, nelle celle a diretto contatto con la sella tra il precipizio e il promontorio.
Tornati nel vestibolo, tramite una scaletta montiamo al piano superiore. Transitiamo per la balconata che, ove non fosse colpevole di cancellare l’impronta dell’ingresso assiale carezzato da Malaparte, sarebbe irrilevante. Ci affacciamo al salone, al correlativo interno del volto parallepipoidale della casa.
Ai quattro angoli sono tagliate altrettante finestre sdraiate, a rettangolo corto. Il caminetto sorge tra le finestre aperte a sud-ovest. Dei mobili superstiti poggiano sul pavimento di pietre bigie posate a opus incertum . Nonostante che il mondo solare esterno cerchi di continuare, che lame di luce irrompano, l’arredo vibri di Kunstwollen, il salone è come è adesso: polveroso, evanescente. Ci muoviamo e vaghiamo qui e là, quasi sperassimo di afferrare il fantasma di Malaparte calcante il palcoscenico, che preferiva da vivo. Non acchiappiamo nulla. Di slancio passiamo in rassegna finestroni. Al primo, fra i pini cresciuti, la visione di Matromania; al secondo, in lontananza, punta Campanella; al terzo, i faraglioni; al quarto, lo scoglio Monacone. A nessuno, il riflesso di Malaparte.
Nel 1938-39, Malaparte inclinava al superamento della rielaborazione lirica attuata a lungo della materia poetica, inquinata dagli umori privati, corrosa dagli acidi della storia pubblica. Mirava, il letterato, alla poesia che ricreasse il creato, reinventasse l’inventato inventato nell’agire sulla realtà già data, rivelasse la surrealtà. ” alle leggi fisiche, chimiche, biologiche, la poesia sostituisce le sue leggi poetiche. Le sole che contino. Non esistono atti, pensieri, oggetti, sentimenti poetici o no. Esiste soltamente ciò che è nella poesia. Che appartiene al mondo della poesia. All’infuori di ciò, nulla esiste. Vi sono rapporti di identità, fra oggetti, idee, sentimenti, atti sopra lo stesso piano fisico: e questa identità alcuni hanno voluto spiegare col sogno”11. Insomma sembrava aderire alla ricerca del prediletto Éluard, di Breton e compagni – anche se, in sede teorica, proclamasse il Surrealismo francese inefficace più degli indirizzi artistici italiani, limitato più della Metafisica, del Magismo, del Novecentismo12.
Malaparte si sarebbe impegnato nel tentativo di concretare la sua poetica: e in occasione della sistemazione degli interni della casa, dentro la villa finita, con la scrittura dei racconti e dei romanzi13. Da architetto, da designer, si applicò ai mobili, specie ai mobili destinati al salone. Ideò e fece fabbricare poltrone ipertrofiche come le poltrone immaginate da De Chirico; divani eleganti, estenuati, snervati come i divani dipinti da Savinio. Un tavolo dal ripiano di massello sinuoso, sostegni in forma di pigna, un oggetto delirante, al limite del parossissmo daliano. Una panca dalla seduta serpentinosa e retta da rocchi di colonna, sembravano provenire dalla bottega del rigattiere anzichè dallo scavo archeologico. E, con lo stesso disegno, consolles ermafrodite. Non trascurò gli arredi fissi. Ad esempio, le finestre. Cornici modanate lungo i tagli del muro, specie di boccascena. Siparietti al posto delle tende. Serramenti ridotti a niente, a tre lastre di cristallo, di cui la centrale a bilico. Di modo che le finestre diventarono insoliti prosceni. O, per altro esempio, il caminetto. Cappa a immagine delle fasi lunari, crescente e calante. Cristallo di Jena sul fondo del focolare, così che, magia, il fuoco danzasse contro il mare illuminato dalla luna.
Radunò i mobili per bande trasversali. In corrispondenza delle finestre-proscenio, le poltrone con il luminator, e i divani. Sulla mediana, il bassorilievo di Fazzini, il tavolo, la panca, a richiamare i fedeli davanti al caminetto-altare14. Probabilmente non conseguì l’arredamento vero e proprio, piuttosto la vaga allegoria dell’intèrieur. La quale certo stava al salone, come il mobilio surrealistico voluto da Charles de Beistegui stava alle stanze dell’attico Beistegui, sopratutto la chambre à ciel ouvert, disegnata otto anni prima da Le Corbusier.
Alla pagina 254 de La pelle, Malaparte chiama il salone atrio. Ma atrio a che cosa? Intanto il salone si proietta oltre la porta a sud. Finalmente, di là dalla porta, la pianta conquista l’asse di simmetria e guadagna due trasversali, e assume l’aspetto della croce decussata. Il corridoio cardinale conosce subito l’incrocio con il primo braccio trasversale, che sfonda in due finestrelle, l’una aperta a oriente, l’altra a occidente. Poco più vanti incontra l’ingresso e il doppio. A e B sono attigui e danno adito ad appartamenti speculari, ma la specularità esclude l’integrazione. Tant’è che noi siamo costretti a visite distinte.
Da A entriamo nell’appartamento di Curzio. Curiosiamo. Una camera da letto dai mobili massicci e scuri; un bagno rivestito di marmi, sanitari marca Ideal Standard. Da B ci trasferiamo nell’appartamento detto della favorita. Una camera da letto analoga; un bagno simile. Ma le differenze non sono di piccolo conto: nella camera di Curzio mancano il caminetto e il bell’armadio a muro, in più c’è una porticina. Come se ne varca la soglia, ci si accorge di abbandonare tutto ciò che era un’alternativa in loco alla vita domestica, e di penetrare nel santissimo – laddove Curzio officiava al dio per lui supremo.
Eccoci nel ricetto finale. Lo studio dello scrittore si atteggia a secondo braccio trasversale, di dimensione pari all’intera larghezza della casa. La parete lunga coincide con il muro della casa e inquadra il mare-cielo. Anche le pareti brevi coincidono con i muri e rispettivamente inquadrano la punta Campanella e i faraglioni. La pavimentazione è di piastrelle ceramiche, ciascuna delle quali reca la figura della lira. Alle pareti una scaffalatura, carica di libri stazzonati, vecchie edizioni degli anni trenta, quaranta, cinquanta. Gli scaffali girano torno torno e terminano nella scrivania. Sedia con schienale a forma di lira. Poltrona. Divano. Stufa tirolese. Poche suppellettili superstiti.
Ispirandosi allo schizzo della lira tracciato da Goethe in margine al manoscritto del Viaggio in Italia, Curzio suggerì alla mano di Savinio lo stesso motivo. Provvide al disegno degli scaffali e della scrivania, con tanto di scrittoio incatenante, macchina celibe. Scelse i quadri di Dufy, Delaunay, Pascin, Kokoschka, Chagall, Morandi, De Pisis. Curzio si preoccupò anche dell’accrochage, somigliante all’accrochage della mostra della pittura surrealista15.
Dentro il microcosmo16, l’aria odorava di luce elettrica, resina, brillantina, acqua di colonia. Con il caschetto di capelli neri come la notte, con il volto lucido, il fazzoletto stretto al collo, Curzio indossava maglietta caprese e shorts, calzava ciabatte comuni (il massimo dell’eccentricità). Curzio sedeva e scriveva. Interpretava un atto di vita intellettuale.

Vittorio Savi

*(Scritto nel 1988, pubblicato, con lo stesso titolo, nello stesso anno da “Lotus international”, numero 60. Corretto, grazie all’aiuto di Ramona Loffredo, nel 2006, ma non aggiornato. La traduzione è la stessa di allora e differisce appena dal testo italiano di oggi. Si ringrazia il direttore della rivista, che è rimasto lo stesso, Pier Luigi Nicolin, di aver autorizzato la pubblicazione on line. Vittorio Savi, svv@unife.it)

Note
1- M. I. Talamona ha cercato, rintracciato e pubblicato il progetto originale di Adalberto Libera e approfondito la storia della progettazione liberiana di villa Malaparte: cfr. L’architetto e lo scrittore, di recente pubblicazione in Adalberto Libera, Electa, Milano 1989 (catalogo della retrospettiva su Libera, Trento, palazzo delle Albere). Contributo eccellente, il suo, che mi permetto di sunteggiare infra. Talamona si appresta a ricostruire anche la vicenda della progettazione e dell’esecuzione malapartiana, in un saggio già annunciato in volume dalla Clup di Milano. In assenza de L’architetto e lo scrittore, a questa dimora particolare si erano dedicati studi monografici, il valore critico dei quali dura integro e permane alto. Ecco l’elenco: G. C. Argan, Libera, Editalia, Roma 1975, pp. 12-13; F. Venezia-G. Petrusch, Casa Malaparte a Capri, “Psicon”, II (1975), n. 5, pp. 140-144 (con rilievi e foto degli autori); J. Hejduk, Casa come me, “Domus”, 1980, n. 605, pp. 8-13 (fotografie di G. Basilico); M. Tafuri, L’ascesi e il gioco, “Gran Bazaar”, 1981, n. 15, pp. 92 -97; e P. Depietri, (relatore prof.V. Savi), Album di Casa Malaparte, tesi di laurea in Caratt. dell’arch. contemp., Bologna 1988 (fotografie dell’autrice).
2- Il sollecito indirizzato a Libera da Malaparte su carta intestata “Prospettive” è conservato nell’archivio Libera, Roma. Il testo trascritto in Malaparte: una proposta, catalogo della mostra, Roma, De Luca, 1982.
3- L’eventuale esecutivo di Libera è andato smarrito; comunque, malgrado ogni indagine, fino ad oggi non è riemerso.
4- Non c’è motivo perchè Malaparte, lettore onnivoro, non conoscesse Eupalinos ou l’architecte nell’ed. NRF, Parigi 1921 e nelle sgg., oppure nella trad. it. Di R. Contu, Carabba, Lanciano, del 1932.
5- Si veda C. Malaparte, La pelle, Roma-Milano, Aria d’Italia, 1949, pp. 253-254; ed. francese, Parigi, Denoël, 1949, pp. 305 – 306.
6- Il dattiloscritto è posseduto dal prof. Ruffolo di Napoli ed è apparso a stampa con il titolo redazionale, Una casa tra greco e scirocco, ne “Il Mattino”, 20.6.1987. Che sappia, non è datato, ma forse, poichè insiste sull’analogia tra l’opera e il creatore, è contemporaneo di Città come me, Donna come ne, Cane come me ecc., le prose d’arte dei tardi anni trenta raccolte in Donna come me, Milano, Mondadori, 1940.
7- La carta da lettera del Malaparte di quel tempo porta stampigliato: Curzio Malaparte / Casa come me / telefono n. 160 / Capri.
8- Lo scrittore fu ritratto sullo sfondo della scala della chiesa di Lipari (foto in Malaparte: una proposta, cit.). E affermava esserne stato ispirato per la gradonata della sua villa (cfr. testimonianza di Guglielmo Rulli in L. Sorrentino, La Cina resta sull’uscio di villa Malaparte, “Tempo”, XXVI (1964), n.2, p. 23).
9- Nell’art. cit. Francesco Venezia legge la casa quale canto orfico, e, implicitamente, lo sceglie a paradigma di una linea di tendenza architettonica, comprensiva delle sue stesse architetture “di poesia”; linea destinata a crescere, a dispetto delle ostilità.
10- Parole messe in bocca ad Adolfo Amitrano dal figlio Ciro, che lavorò al cantiere della casa (cfr. la testimonianza in P. Depietri, op. cit.).
11- C. Malaparte, Notizia, 1938 in L’arcitaliano e tutte le altre poesie, Vallecchi, Firenze, 1963, p. 229. Notizia è un importante testo di poetica, così scopertamente neosurrealista da potersi firmare Eluard, Breton ecc.
12- Si veda Il surrealismo e l’Italia, “Corriere della Sera”, 12.10.38; ampliato nel saggio omonimo in “Prospettive”, 1940, n. 1, pp. 3-7.
13- Cfr. Kaputt, Casella Napoli, 1944 e La pelle, cit. L’indole di questi testi, compiuti nella casa, è rilevata da G. Grana, Malaparte, La Nuova Italia, Firenze 1968 (unica monografia valida criticamente, a prescindere dai contributi al convegno “Malaparte scrittore europeo”, Prato 1987, atti ancora inediti).
14- Lo stato originario del salone è fissato da scorci di vecchie fotografie (conservate dalla Fondazione Giorgio Ronchi, attuale proprietaria di casa Malaparte).
15- Lo stato originario dello studio è documentato da scorci di vecchie fotografie e da un notturno malpartiano, l’incipit s.d. di Benedetti italiani, Firenze, Valecchi, 1961.
16- In Surrealism and architecture, “A.D.”, 1978, n. 2-3 ( monografico), nè Dalibor Veseley, nè Raymond Koolhaas, nè altri annettono gli interni di questa dimora al catalogo delle architetture surrealiste. Nell’art. cit. John Hejduk sfiora appena l’assegnazione. Ciò non toglie che gli interni siano situabili all’origine di una ricerca architettonica neosurrealista ormai esemplificabile con le opere progettuali di Veseley, Koolhaas, e, sopratutti, di Hejduk.

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