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Fluide superfici litiche _ modellazione 3D.


Pongratz Perbellini Architects – inviluppi di studio della superficie Hyper-Wave
(foto A. Acocella, elaborazione D.Turrini)

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Nel volgere degli ultimi decenni un sempre più rapido progresso scientifico ha indotto un profondo mutamento dei riferimenti spazio-temporali, dei processi cognitivi ed immaginativi e dei concetti di forma ed immagine del contesto oggettuale in cui l’uomo vive, calato com’è tra realtà e virtualità. Matematica, fisica, biologia e scienze informatiche hanno trasferito in particolar modo al mondo dell’architettura una serie di nuove conoscenze e suggestioni, accompagnate da inediti metodi di analisi e progettazione della realtà. Da questi campi conoscitivi, integrati in un’ottica multidisciplinare, si sviluppano innovativi concetti di dimensione, struttura geometrica, materia, forma e, soprattutto, emergono nuovi percorsi di percezione sensoriale.
La possibilità di tradurre equazioni differenziali, funzioni e algoritmi in oggetti tridimensionali riguardabili come vere proprie sculture matematiche consente al progettista di creare e controllare ogni tipo di formazione, metamorfosi e deformazione geometrica e modifica sostanzialmente la struttura e l’estetica delle forme solide e degli spazi architettonici. La continuità di trasmissione diretta dei dati digitali scaturiti dal design 3D al processo di produzione di componenti o di subsistemi costruttivi rappresenta una delle conquiste più avanzate dell’era tecnologica contemporanea.
In questo contesto si inscrive l’esperienza dello studio Pongratz Perbellini Architects, nata da ricerche accademiche condotte da Christian Pongratz a partire dal 2002 alla University of Texas di Austin, e di recente approdata alla produzione di cinque diverse tipologie di superfici litiche fluide, modellate grazie all’impiego dei più aggiornati software di tipo CAD/CAM (Computer Aided Drafting – Computer Aided Manufacturing).
La serie degli elementi, denominata Hyper-Wave, è stata concepita dai progettisti in collaborazione con l’azienda Fratelli Testi di Sant’Ambrogio di Valpolicella (VR) ed è in corso di brevetto. I modelli dimostrativi in scala reale di ognuna delle tessiture superficiali sono stati esposti al 40° Marmomacc di Verona e sono stati realizzati con materiali lapidei diversi: Rosso di Verona, Bianco di Carrara, Moleanos e Pietra Serena.
La fluidità plastica delle sinuose increspature litiche di Hyper-Wave crea inediti effetti tattili e visivi.


Pongratz Perbellini Architects – inviluppi geometrici e vista parziale della superficie litica Hyper-Wave Moon
(foto A. Acocella, elaborazione D. Turrini)

Il processo produttivo della linea Hyper-Wave prende avvio dal trasferimento e dalla conversione della modellazione digitale in specifici programmi CAM, che guidano la fresatura superficiale di grandi lastre litiche di alcuni metri di lato. Tale procedimento è realizzato con l’utilizzo di centri di lavoro pluriassiali (4 o 5 assi) con teste utensili diversificate. Successivamente le lastre passano al processo di finitura, eseguita manualmente per superfici levigate e specchianti, o con ulteriori utensili che permettono di ottenere lavorazioni superficiali ed effetti chiaroscurali aggiuntivi. Gli elementi litici sono poi tagliati in formelle più piccole.
La linea Hyper-Wave sarà proposta sul mercato suddivisa in moduli base quadrati delle dimensioni indicative di 40 cm di lato per 3 cm di spessore. In ogni caso la flessibilità dei processi di lavorazione consentirà una pressochè illimitata adattabilità dimensionale dei moduli, che potranno essere tagliati in dimensioni maggiori o minori in base alle specifiche esigenze progettuali.
Grazie alla ripetizione dei moduli si potranno realizzare rivestimenti architettonici interni od esterni senza limiti di lunghezza, larghezza e di variazione delle combinazioni disegnative della tessitura. La rapidità e la facilità di posa delle lastre litiche sono state oggetto di particolare studio: i componenti della linea Hyper-Wave potranno infatti essere assemblati a secco, con predisposizione di appositi supporti metallici, o potranno essere incollati con malte grazie alla calibratura di ogni lastra.
Specifici moduli di margine permetteranno di creare fluidi raccordi di continuità tra le superfici parietali verticali ed eventuali rivestimenti litici dei piani orizzontali di soffitti e pavimenti.

di Davide Turrini

(Vai a: Pongratz Perbellini Architects)

commenti ( 14 )

22 Novembre 2005, 22:31

damiano

è il caso di fare annunci pubblicitari in questa nuova opportunità culturale?

23 Novembre 2005, 15:31

davide turrini

Egregio Damiano,

la rubrica Elementi di Pietra, in cui spesso edito interventi all’interno del più ampio contesto del blog, non nasce con lo scopo di raccogliere "annunci pubblicitari". Mi pare che tale giudizio un po’ affrettato e semplicistico tenda a travisare il mio lavoro che, nel tentare di promuovere con rigore un’accurata Informazione Tecnica, deve necessariamente scandagliare il mondo del progetto e della costruzione d’architettura, come anche il vasto ed interessante campo della produzione di componenti e sistemi tecnologici.
Ritengo che, ad un’attenta lettura, i pezzi pubblicati in Elementi di Pietra non appaiano come banali box di promozione di un prodotto, ma siano apprezzabili come sintetici nuclei concettuali frutto di una selezione critica di ciò che nel settore dei lapidei per l’architettura si sta muovendo sui percorsi di maggiore innovazione tecnologica; con la consapevolezza che l’operato di progettisti e aziende non va demonizzato a priori, bensì va osservato e vagliato per ciò che di utile ed apprezzabile può offrire al mondo della ricerca, della progettazione, della cultura applicativa della pietra.
Con questo stile la rubrica continuerà a consolidarsi, ampliando il più possibile lo spettro della raccolta di prodotti e di sperimentazioni in corso per dare spazio, divulgazione e visibilità ad ulteriori esempi e riflessioni nel campo della ricerca applicata. Capisco che le scelte di Elementi di Pietra possano toccare il ganglo vitale delle forze economiche e di quelle inventive in gioco nel mondo dell’architettura, pur tuttavia ritengo che in questa che Lei stesso, Damiano, definisce come una "opportunità culturale", non ci possano essere steccati ideologici, preclusioni, paure, non ci si debba asserragliare in sacre torri d’avorio difendendo effimeri primati culturali, bensì sia necessario slargare, articolare sempre più l’offerta comunicativa e la pluralità dell’informazione.
Ecco allora, per tornare ad un suo precedente giudizio di merito, che non penseremo ad un primato della pietra massiva sulla pietra come pelle, ma considereremo entrambe le categorie concettuali e costruttive con pari dignità: solo così trasferiremo a chi ci legge una informazione equa e rigorosa affinchè con gli strumenti critici personali ognuno si possa poi formare una opinione originale.
Augurandomi di averLa ancora tra i partecipanti al dibattito litico, magari non solo con icastici interventi ma con posizioni più articolate, La saluto con cordialità.

Davide Turrini

24 Novembre 2005, 00:52

damiano steccanella

caro Davide,
a proposito della icasticità dei miei interventi ho dovuto consultare il Devoto-Oli per riappropriarmi del termine icastico, che nel contesto del suo intervento mi sfuggiva.
Letteralmente per intervento icastico si intende un intervento improntato a una notevole efficacia rappresentativa.
In questo caso non posso far altro che accettare il complimento.
Comunque non voglio assolutamente farne una questione personale ed anzi mi spiace che i miei interventi vengano interpretati come poco rispettosi del lavoro altrui.
Detto questo cerco di esprimermi in maniera più articolata come mi è stato chiesto.
Prima di tutto voglio ribadire, provenendo io dalla parte dei produttori e quindi con cognizione di causa, che le aziende sanno benissimo come proporsi al mercato e per questo è giusto che paghino per gli annunci pubblicitari e per gli stand nelle fiere.
L’ultimo numero di Casabella conteneva un allegato, forse anche più voluminoso della rivista stessa, della azienda Marca Corona, azienda ceramica che nei marmi trova una fonte inesauribile di aspirazione.
La categoria degli architetti o comunque progettisti è tra le più corteggiate dalle aziende che gravitano nel comparto edile, organizzano convegni, dibattiti, premi di architettura.
Il fatto non è poi così scontato, non molto tempo fa gli annunci pubblicitari erano riservati al consumatore finale, una coppia davanti al caminetto, il calore della casa, e sotto un certo pavimento. Peggio ancora si poteva trovare, e qualche volta si trova ancora adesso, un bel fotomontaggio con la villa antica rivestita di “marmo di fabbrica”.
La categoria si è evoluta e adesso i seminari universitari sono promossi da Marazzi, i premi di architettura da Graniti Fiandre, il Palagio o Sannini organizzano gite alla Banca Popolare di Lodi.
Sono convinto che l’architettura e la cultura dei materiali debbano vivere senza gli sponsor.
Ben venga la conoscenza di nuovi prodotti, della nuova tecnologia, ma sinceramente, contro i miei stessi interessi, prediligo la poetica.
Gli architetti debbono collaborare con le aziende e le aziende trovano da questa collaborazione motivo di crescita.
Questo blog parla di Architettura di Pietra, non credo sia il caso di trasformarlo in un portale di prodotti per l’architettura di pietra, non andrei più a leggere gli interventi, non avrei la curiosità di leggerne i contenuti, non mi stupirei dell’energia necessaria che il continuo aggiornamento delle pagine richiede alla redazione.
E’ chiaro, mi sembra che si sia capito, ho certe predilezioni nell’approccio ai materiali, lei Davide non la pensa come me, ed io finchè avrò tempo e voglia glielo scriverò e spero che molti altri intervengano nel dibattito.
Ritengo la Rete uno strumento di libertà e democrazia ma estremamente fragile e contaminabile.
Sono comunque un ottimista.
La saluto, ci rileggeremo prossimamente sul blog.
Damiano Steccanella

24 Novembre 2005, 19:56

Maria Antonietta Esposito

La creazione dell’informaizone per il progetto in un ambiente continuo che processa i dati in entrata trasformandoli direttamente in informazioni di progetto per il controllo morfologico-dimensionale (con il design 3D) e relativi a tutti i requisiti quantificati eventualmente rappresentabili mediante funzioni matematiche ed algoritmi fino al lancio diretto del processo di produzione di componenti o di subsistemi costruttivi, rappresenta sicuramente non solo una delle espressioni più caratteristiche dell’impatto dell’IT che permea l’era post-industriale, ma anche la dimostrazione pratica della utilità del tracciamento dei processi con metodi e tecniche digitali incorporati e non distinti nei metodi e tecniche di progettazione ai fini della qualità non solo dei processi stessi ma del prodotto. La qualità del progetto ha evidentemente natura integrata.
Questo aspetto mi interessa molto perchè riguarda quell’apparato di nuovi metodi, tecniche e tecnologie dell’informazione (e non solo informatiche quindi) che supportano il progetto sia nell’architettura che nel design dei componenti. Concordo pertanto con quanto affermato da F.Schiaffonati nel dibattito conclusivo del 1° Seminario Estivo dei Dottorati in Tecnologia dell’Architettura (Viareggio, Settembre 2005) al riguardo e cioè che dobbiamo accontentarci “di procedere con cautela operando per la razionalizzazione del progetto, implementando il livello delle sue conoscenze, della sua comunicazione, delle reti di interconnessione tra i diversi saperi.” Atteggiamento particolarmente efficace soprattutto in un momento in cui l’industria italiana si trova in vari settori sicuramente a fronteggiare costi molto più bassi, ma soprattutto appare poco propensa all’investimento in ricerca ed innovazione, anche se, come ha affermato R. Del Nord nella stessa occasione, noi abbiamo sostanzialmente il problema di individuare le linee dello sviluppo futuro per cui dobbiamo avere “creatività” tecnologica” soprattutto nella ricerca, anche progettuale.

25 Novembre 2005, 18:56

Maddalena Coccagna

Trovo estremamente interessante il dibattito suscitato da questa rubrica fra ciò che è “poetica” della pietra e ciò che è promozione di un prodotto, in particolare perchè si tratta di un tema ben più ampio che abbraccia tutto il settore delle riviste di architettura. Credo sia molto difficile mantenere il necessario distacco fra mondo della produzione e progetto, soprattutto in una fase così "sperimentale" di questo luogo di discussione.
Ritengo che sia in parte vero ciò che sostiene Damiano Steccanella sulla pubblicità occulta, anche se sono convinta non rientrasse in nessun modo nelle intenzioni dello scrivente. Fiere e manifestazioni diventano occasione per vedere nuovi prodotti e l’entusiasmo della scoperta fa spesso perdere di vista la necessità di sperimentare, verificare e mettere a confronto ciò che il settore offre per darne notizia in modo critico e consapevole. Nel caso specifico, l’introduzione massiccia dell’informatica nella lavorazione degli elementi lapidei è certamente un tema interessante e che offre ottimi spunti progettuali che spero troveranno altro spazio nel sito, sarebbe però stato forse più prudente accennare alla Manifestazione di Marmomacc lasciando al lettore la voglia di scoprire quali e quante possibilità offre il mercato.
Credo che questa occasione di discussione evidenzi, piuttosto, una certa carenza per così dire "tecnica" sui rischi e le limitazioni specifiche eventualmente legate all’uso di questo tipo di lastre (o in rapporto agli altri elementi descritti dalla rubrica), lamento cioè una lacuna nel dettaglio tecnico critico che chi visita questo sito potrebbe, sicuramente, apprezzare.
Sarebbe utile, a mio vedere, una maggiore distinzione fra i Progetti, che hanno una loro categoria distinta nel sito e che pongono in risalto anche i progettisti ed i produttori (come in tutte le schede-progetto delle riviste di architettura) e la categoria degli Elementi di Pietra, che troverei più adatta ad una disamina delle innovazioni e degli elementi tecnici attinenti alle opere in pietra.
Questa informazione più "specialistica", vista anche con approccio critico rispetto a ciò che il mercato propone e a come il prodotto viene poi posto in opera, merita di essere sviluppato in modo più ampio, soprattutto potendo avvalersi sia del pubblico attento di questo blog, sia delle innegabili competenze di chi questo sito lo gestisce.
Mi scuso se le proposte che ho qui esposto sono più "operative" che metodologiche ma si tratta di commenti fatti con l’ingenuità di credere che sia possibile documentare limitando i rischi di avere un’informazione "parziale".

26 Novembre 2005, 10:29

Anna Frangipane

Capisco e condivido l’attenzione al labile confine tra informazione e promozione, ma, in questo caso, sono più curiosa che preoccupata, sposando pienamente le riflessioni di Maddalena Coccagna.
Trovo molto interessante l’applicazione di procedimenti propri dell’industrializzazione avanzata alla pietra e vorrei approfittare dell’opportunità di un colloquio a diversi livelli e tra diverse competenze offerta dal blog litico per formulare una prima riflessione e alcune domande sulle tecniche e i materiali.
La suggestiva immagine di inizio pagina evidenzia una realtà virtuale discosta dalla matericità che nel mio vissuto e nel mio immaginario è indissolubilmente legata alla pietra. La creazione di un pattern definito da una creatività scollegata dal materiale in sè, dalla presenza di difetti, di venature, di variazioni di consistenza e colore porta, inevitabilmente, all’applicazione di un modello automatico e ripetitivo, lontano dalla identità del singolo pezzo lavorato. La materia piegata alla tecnica mi fa, nel contempo, a ricordare le vesti dei busti dei patrizi romani, modellate nei pregiati marmi colorati, al di là della loro identità fisica, in una ripetitività vicina all’industrializzazione. L’immagine non rende, comunque, merito di effetti cromatici inattesi, sicuramente presenti nei pezzi finiti, vicina com’è all’idea di una prototipazione per cassaforme.
La mia non vuole essere assolutamente una critica al procedimento, di cui capisco le enormi potenzialità nella realizzazione di grandi superfici, nella definizione di modellazioni uniche, non necessariamente a patterns, nel mercato delle pavimentazioni, così come degli alzati, e apprezzo molto l’innovazione proposta.
Ora le domande.
Può una lavorazione automatica a patterns veramente soddisfare, nella sua ripetitività, le esigenze di un materiale naturale, non ricomposto, e, quindi, per natura, disomogeneo in termini di lavorabilità? Gli esempi di applicazioni realizzate, che mi dispiace non poter vedere nel dettaglio, sembrano rispondere che ogni tipo di pietra, dal marmo all’arenaria, possa essere modellata. La tecnica può piegare in tutto il materiale o esistono margini di errore?
Una seconda domanda riguarda la durabilità di questi elementi, quando soggetti agli agenti atmosferici. Che tipo di prove sperimentali precede l’introduzione sul mercato di questi manufatti? Quali tipi di trattamento superficiale protettivo richiederanno i pezzi in opera?
Per finire, quali sono le lavorazioni manuali previste e quali gli utensili per l’ottenimento degli effetti chiaroscurali aggiuntivi indicati?
Grazie per l’attenzione e le eventuali risposte.

26 Novembre 2005, 17:23

damiano

Louis Kahn
Estratto dai miei appunti del corso di progettazione, da Rassegna n. 21, marzo 1985.
"la Forma raccoglie in se stessa un’armonia di sistemi in un senso dell’Ordine che caratterizza un’esistenza nei confronti di un’altra. La forma è "cosa". Il design è "come".
La forma è impersonale e non appartiene a nessuno, il Design è personale e appartiene al progettista."
"La forma deriva dalla comprensione del processo di realizzazione. La Forma non è figura (shape). La figura riguarda il Design. La Forma è la realizzazione di elementi inseparabili. Il Design rende concreto quello che la "realizzazione-forma" ci suggerisce.
Si potrebbe anche dire che la Forma può essere vista come la "natura" di qualche cosa e che il Design entri in gioco in un preciso momento, impiegando le leggi della Natura, per portarlo alla luce.
Il Design chiede che si comprenda l’Ordine. Quando si ha a che fare o si progetta con mattoni, si deve chiedere al mattone che cosa voglia o possa fare e ti risponderà che la sua Natura sta nel comporre l’arco. Se si ha a che fare con il cemento armato si deve conosce l’ordine naturale, l’ordine proprio del cemento armato, che cosa il cemento armato ha la potenzialità di essere."

27 Novembre 2005, 19:22

alfonso acocella

La Forma nel palinsesto del Tempo
Saturi di un’afona critica dell’architettura contemporanea sempre più testimonianza pleonastica, ancillare e incapace di aggiungere elementi significativi alla comprensione delle opere, di indicarci la via per addentraci nelle viscere della disciplina, abbiamo inteso – da tempo – provare un ribaltamento della prospettiva di analisi.
Siamo stati portati a collegare le azioni interpretative dell’architettura alle nozioni di materia, di materiale, di concezione costruttiva ricevendone – contro ogni previsione – più che un inaridimento o una restrizione del campo d’indagine una chiara e precisa adesione alla realtà, alla sostanza della disciplina.
Ogni materia fondamentale della costruzione – come sappiamo – ha dato vita ad uno speciale orizzonte dell’architettura, ad uno Stile tecnologico di riferimento, che inevitabilmente di inscrive in un passato, in una tradizione di breve o di più lunga durata.

Espressione dello Stile
Al concetto di Stile si lega l’interpretazione proposta e – attraverso di essa – il raccordo, sia pur parziale ed unidirezionato, con alcuni nuclei concettuali in discussione nei precedenti commenti. Nel tempo abbiamo distillato, lungo le nostre ricerche, l’orizzonte vasto dell’architettura attraverso l’idea di Stile tecnologico che – senza sottovalutare i caratteri eminentemente formali e spaziali dell’architettura, anzi inglobandoli – riabilitasse gli elementi costruttivi, su cui è caduto l’oblio della contemporaneità, con i loro tratti archetipici d’origine e la ricchezza delle varianti tecno_morfologiche sedimentante nella lunga durata.
Eccoci allora qui – stimolati dall’interazione, anzi dal processo di intercreatività nella produzione di nuovi contenuti a partire dal post "Fluide superfici litiche _ modellazione 3D" di Davide Turrini – ad esplicitare, per la prima volta, l’idea matrice dello Stile litico nel rapporto dialettico fra materia e forme.
Per Stile litico intendiamo i tratti di generalità, l’espressione riconoscibile delle figure non dissipative delle qualità della pietra e degli elementi costruttivi da essa originati pur in presenza di variazioni – tecniche e configurative – degli artefatti alimentate dall’energia della materia che pervade, riunifica, ma anche individualizza ogni progetto ed opera d’architettura.
Ci siamo chiesti più volte quali siano gli elementi e le qualità fondativi che concorrono all’espressione "riconoscibile" dello Stile litico. Quali i fattori della sua vita, della sua evoluzione nel tempo.
Sono, per noi, elementi dello Stile – al pari degli elementi costruttivi in senso stretto – già la materia e il materiale. La materia litica – sappiamo – è cosa molteplice, variabilissima nelle dimensioni, nelle forme reperibili, nelle vocazioni di trattamento superficiale; grandi monoliti, macigni, pietre grezze o solo parzialmente rettificate, ciottoli, tessere e frammenti minuti, conci prismatici regolari, lastre sottili o a spessore, blocchi scultorei, lamine.
Agli elementi dello Stile appartengono, inoltre, le stesse qualità fisiche della materia: naturalità, policromismo e/o monocromismo, costitutività mineralogica e disegno dei litotipi. E anche qui la varietas prevale rispetto ad ogni pretesa di declinazione al singolare di ciò che il mondo litologico, con tanta generosità, mette a disposizione dello Stile.
È a partire da ricongiunzioni, sovrapposizioni, stratificazioni, composizioni, modellamenti che la materia – selezionata e indirizzata con intenzionalità verso l’artificio e la fabbrica – trasmuta il suo significato in materiale, evolve verso il ristretto repertorio degli elementi fondativi ed archetipici dello Stile litico: cumuli, muri, colonne e pilastri, architravi, archi, piattabande, superfici involucranti in forma di pavimenti, di pareti, di coperture.
Il dispiegarsi di tutti questi elementi – da intendersi e da valutarsi nei tratti di omogeneità e di convergenza, ma anche nelle oppositività di senso architettonico che da sempre, ad esempio, hanno contrapposto l’ordine colonnare all’opera muraria, i muri massivi di pietra ai muri stratigrafici – delinea l’orizzonte entro il quale e stata fissata indelebilmente "l’espressione riconoscibile" dello Stile litico a cui facevamo riferimento in apertura.

Espressione dell’Opera
L’espressione dello Stile litico può essere definita come una intonazione d’insieme derivante dagli elementi, dalle qualità e dalle soluzioni combinatorie che nella lunga durata contribuiscono alla formazione di una tradizione, di un linguaggio, di una cultura visiva e d’impiego del materiale. Uno "stato accumulativo" – è bene anticipare – che però risulta in continuo aggiornamento come una sorta palinsesto in perenne riscrittura.
All’interno dello Stile distinguiamo – però – due tipi di espressione: l’espressione generale che deriva dall’azione astrattiva di "capitalizzazione" degli elementi (assetti costruttivi e caratteri formali specifici, modelli compositivi ricorrenti) e l’espressione specifica delle opere di architettura che si inscrivono – lungo la loro apparizione temporale – "completamente" o solo parzialmente nell’espressione consolidata di lunga durata dello Stile.
Nel condurre gli studi sugli Stili tecnologici ci siamo resi conto ben presto di come non sia sufficiente acquisire una veduta generale – una sorta di repertorio convenzionale fatto di soluzioni fisse, di ricette, di procedimenti, di equilibri raggiunti una volta per sempre – bensì risulti necessario cogliere la vitalità mai spenta della materia, seguirla, vedere (in altri termini) "trascorrere la sua vita" attraverso le metamorfosi che la trasmutano progressivamente in materiale, prodotto, elemento, opera d’architettura e che possono ambire anche a proporsi come invenzione, innovazione, ricominciamento.
È l’opera di architettura, riteniamo, ad essere l’elemento attivo che amplia quantitativamente il palinsesto dello Stile, accettando convenzioni e producendo repliche – visto che le azioni ripetitive dell’agire umano sono prevalenti rispetto ad ogni "scostamento" da quanto costituisce regola, consuetudine – o che traccia nuovi segni introducendo soluzioni costruttive o morfologiche inedite.
A rinnovare lo Stile – che risucchia le acquisizioni delle opere appena costruite in una grammatica, in una sintassi, e alla fine in una tradizione – interviene l’azione attiva delle nuove opere di architettura che – incessantemente – spostano, modificano, arricchiscono l’equilibrio progressivamente raggiunto dal Tempo.
Artefici
Ogni opera si struttura attraverso una quantità di elementi. Spesso, con forte evidenza, alcuni elementi – più di altri – vengono assunti come generatori d’architettura. In questa scelta non c’è mai una univocità selettiva, come pure un obbligato esito architettonico, perchè se è vero che la nascita di un opera ubbidisce sempre alle necessità di un preciso uso, risponde sempre allo Stile tecnologico di riferimento, è altrettanto incontestabile come tali condizioni non esauriscano o risolvano al loro interno tutta la complessità del problema creativo e soprattutto l’individuazione degli elementi forti su cui costruire il progetto. Tra gli infiniti elementi che possono concorrere ad un progetto, si tratta di sceglierne alcuni come generatori.
Rappresentazione, in altri termini, dello Stile tecnologico di riferimento e interpretazione del tema progettuale attraverso la sensibilità, il talento creativo.
Ogni artefice – alla fine – opera all’interno dello Stile tecnologico in modo attivo; il suo agire è sempre dialettico. Così come assume elementi, qualità ed espressioni formali di riferimento dello Stile, al pari imprime modifiche e contribuisce incessantemente – sia pur attraverso “relativa autonomia” e “parzialissimi spostamenti” – alla riscrittura degli elementi utilizzati e delle forme generali di espressione ad essi riconnesse.
Dietro le opere – quindi – scorgiamo sempre gli autori che perpetuano o evolvono le "idee" repricandole, innovandole o semplicemente reinterpretandole attraverso la loro "fissazione" sulle materie, da intendersi quale supporto di registrazione a memoria futura.
All’interno di questo quadro concettuale, ci sembra allora che il lavoro sperimentale di Pongratz Perbellini Architects tenti la strada – se non ancora dello "slargamento" dello Stile attraverso l’Opera – quella iniziale e pionieristica dell’interpretazione inedita della materia secondo quel processo di "intenzionalizzazione formale" che, mirabilmente, Henry Focillo, ci indica in una brano già editato in questo blog:
“La forma non è che una veduta dello spirito, una speculazione sull’estensione ridotta all’intellegibilità geometrica, fino a che non vive nella materia. (…)
Nel momento in cui affrontiamo il problema della vita delle forme nella materia, noi non separiamo l’una nozione dall’altra, e, se pure ci serviamo dei due termini, non è allo scopo di dare una realtà obiettiva ad un procedimento d’astrazione, ma, anzi, è per mostrare il carattere costante, indissolubile, irriducibile d’un accordo di fatto. Così la forma non agisce come un principio superiore che modelli una massa passiva, giacchè si può pur sostenere che la materia imponga la propria forma alla forma. Così pure non si tratta di materia e di forma in sè, ma di materie al plurale, numerose complesse, cangianti, aventi un aspetto e un peso, sorte della natura, ma non naturali.
Da quanto precede si posson trarre parecchi principi. Il primo, è che le materie comportano un certo destino o, se si vuole, una certa vocazione formale. Esse hanno una consistenza, un colore, una grana. Sono forme, come dicemmo, e per ciò stesso, chiamano, limitano o sviluppano la vita delle forme dell’arte. Sono scelte, non soltanto per la comodità del lavoro, oppure, nella misura in cui l’arte serve ai bisogni della vita, per la bontà del loro uso; ma anche perchè si prestano ad un trattamento particolare, perchè danno certi effetti. Così la loro forma del tutto bruta, suscita, suggerisce, propaga altre forme e, riprendendo un’espressione apparentemente contraddittoria che i capitoli precedenti permettono di comprendere, perchè le liberano secondo la loro legge. Ma giova osservare subito che questa vocazione formale non è un determinismo cieco, poichè – e qui è il secondo punto – quelle materie così ben caratterizzate, così suggestive ed anche così esigenti riguardo alle forme dell’arte sulle quali esercitano una specie d’attrazione, si trovan da queste, di rimbalzo, profondamente modificate.
Così si stabilisce un divorzio tra le materie dell’arte e le materie della natura, anche se unite tra loro da una rigorosa convenienza formale. S’assiste allo stabilirsi d’un ordine nuovo. Sono due regni, anche se non intervengono gli artifici e la fabbrica. Il legno della statua non è il legno dell’albero; il marmo scolpito non è più il marmo della miniera; l’oro fuso è un metallo inedito; il mattone, cotto e messo in opera, è senza rapporto con l’argilla della cava. I colori, l’epidermide, tutti i valori che agiscono otticamente sul senso tattile, sono cambiati. Le cose senza superficie, nascoste dietro la scorza, interrate nella montagna, bloccate nella pepita, inglobate nella mota, si sono separate dal caos, hanno un’epidermide, aderito allo spazio ed accolto una luce che la lavora a sua volta. Anche se il trattamento subito non pure ha modificato l’equilibrio ed il rapporto naturale delle parti, la vita apparente della materia s’è trasformata.”*
Riteniamo che questa eterna dialettica fra materia_forma e forma_materia sia alla base della ricerca di Pongratz Perbellini Architects che in Azienda ricercano le condizioni adeguate di verifica (e le solo coerenti all’esperimento) delle loro idee di configurazione inedita della material litica attraverso l’aiuto della produzione di modelli, di prototiipi, al pari di quanto avveniva nelle botteghe artigiane o nei cantieri delle grandi fabbriche del passato. Anche in quei contesti storici ad agire erano forze politiche, economiche, convergenti verso la ricerca di consenso, di spazi di mercato benchè oggi, spesso, ce ne dimentichiamo a causa della loro non facile rappresentabilità rispetto alla presenza, a volte imperitura, delle forme dell’architettura di pietra, della loro "poetica materica".
Per non rifuggire completamente dall’altro tema (il tema comunicativo) – introdotto sia pur tangenzialmente alla discussione in corso sugli aspetti disciplinari proposti dalla sperimentazione di Pongratz Perbellini Architects – non sottovalutiamo l’importanza e la problematicità del ruolo delle diverse figure che oggi – in forma di "autori espliciti" ed "autori impliciti" – governano, in forma convergente ed unicorde, la comunicazione contemporanea d’architettura.
Ma questo è un tema troppo vasto, toppo importante e serio, che va affrontato più sistematicamente non solo chiamando in causa – nè tanto meno demonizzando – le Aziende di materiali e di prodotti per l’edilizia bensì tutti gli attori che ruotano intorno alla produzione di comunicazione del nostro settore (editori, responsabili finanziari e scientifici, direttori di riviste, redattori e critici, fotografi, grafici, finanziatori, immobiliaristi, imprese di costruzione, aziende di produzione di materiali, architetti; insomma le forze economiche in campo e i fattori che soffiano alle spalle degli uomini come sovrastrutture epocali come l’ansia di anonimato che circonda la nostra società mediatica, dove l’apparire è diventato un valore assoluto e dove – spesso – l’apparire viene confuso con l’essere.
Ci ripromettiamo, comunque, di ritornare sull’argomento negli sviluppi futuri del blog.

(*) Henry Focillon, "Le forme nella materia" p. 52 in Vita delle forme , Torino, Einaudi, 1990 (tit.or. Vie des Formes suivi de Éloge de la main , 1943), pp. 134.

30 Novembre 2005, 10:54

andrea dalpasso

Nella mia limitata esperienza di studente che non si è ancora confrontato pienamente con la realtà del lavoro, concordo pienamente con la proposte “più operative che metodologiche” di Maddalena Coccagna.

30 Novembre 2005, 10:56

andrea dalpasso

Ritengo che sia non solo utile, ma necessaria la divulgazione di tecnologie innovative e risultati di ricerche o sperimentazioni. Certo, anche io concordo sull’incertezza del confine tra pura e semplice “descrizione ” a scopo divulgativo e pubblicità occulta a favore del responsabile della nuova tecnologia. A rischio di banalizzare la questione, affermo che non trovo alcuna differenza tra il rischio di pubblicità occulta nella descrizione di una tecnologia e in quella di un nuovo progetto di architettura o design rintracciabile in una qualsiasi rivista in commercio: in questo caso, dunque, si farebbe pubblicità occulta a renzo piano, o chi per lui.

ps: chiedo scusa se il mio commento è diviso in due parti, si è trattato di un problema di connessione internet

1 Dicembre 2005, 10:55

giovanni avosani

L’argomento trattato in questo blog, mi spinge a inserire una nuova chiave di lettura dell’articolo di Davide ( mi permetto di usare questo tono informale perchè vedo essere usanza nel blog).
Non scaturisce dall’analisi del prodotto, che non vorrei fosse finalizzata solo alla valutazione dell’elemento litico, come il "digitale" abbia influenzato la progettazione della nuova pietra.
La spunto che potrebbe nascere dalla analisi del prodotto e da alcune osservazioni fatte in un secondo momento, dovrebbe essere indirizzato a capire l’approccio metodologico che Pongraz Perbellini A. hanno utilizzato nella definizione delle forme applicate alla pietra.
Si potrebbe pensare che l’operazione fatta, sia solo legata al trasferimento di un’intuizione formale nell’elemento pietra tramite uno strumento come il computer.
Lo strumento informatico non è usato con un approccio contemporaneo rimane solo nella sua forma di CAD/CAM? Se così fosse l’operazione fatta dagli architetti sarebbe priva di quella poetica che sembra trasparire dall’articolo e di successivi commenti.
Non vedo quindi sostanziali innovazioni se non semplicemente metodologiche; dove è situato il cambiamento legato ai nuovi paradigmi informatici?
In che modo la frattalizzazione che alcuni architetti stanno sperimentando, spesso solo nella fase di rappresentazione dei progetti, si lega al progetto in questione?
Mi chiedo, la progettazione di questa nuova forma organica trova interazione con le caratteristiche della pietra? La pietra in che modo influisce e deforma il proprio disegno?
Possiamo affermare che il processo progettuale utilizzato da Pongraz Perbellini A. sia frutto di un’attenta analisi sul ruolo che uno strumento come il computer ha acquisito nella progettazione architettonica?
Concludo con un provocazione che non vuol essere fine a se stessa ma vuole introdurre una riflessione sull’uso della pietra: questo straordinario materiale dell’architettura, ha bisogno di un valore aggiunto come quello introdotto dagli architetti forse alla ricerca di un’intuizione formale superficiale, oppure il valore fondamentale e simbolico della pietra avrà sempre la meglio sui formalismi litici.
La progettazione dell’Architettura ha già dimostrato come non è necessario forzare i materiali per fare architetture.
Un solo esempio Vals.

Mi scuso per eventuali errori ma le tempistiche del web mi spingono a rispondere in tempo reale.
Saluti Giovanni

5 Dicembre 2005, 22:34

Marcello Balzani

Nel vedere queste immagini, mimanti il “lapsus tra lapide e lapis” (dove la grafite risiede in un cuore digitale) mi ritorna in mente la definizione di -significante fluttuante- di Lèvi-Strauss, nell’argomentare l’evanescenza linguistica che nessun approccio, significato, uso metaforico, può costringere o bloccare. Un mediatore tra i codici che impone violentemente la sua capacità di "esercizio al pensiero simbolico". Il corpo della materia non significa nulla? Oppure, come per molti simbionti o trance-feriti, esso parla il linguaggio degli altri, si trans-forma, permettendo di tras-durre svariati codici, di entrare attraverso un passe-partout in diversi livelli (naturali, artificiali, astratti, …)?

5 Dicembre 2005, 23:26

alfonso acocella

Attendevamo da tempo Marcello Balzani sul blog_architetturadipietra.it
Lo aspettavamo (nel caso specifico) in “3D”, ma – spiazzandoci, piacevolmente – intanto ci ha offerto la quarta dimensione: quella del pensiero, delle idee che tutto soppesano e tutto evolvono.
In futuro ci auguriamo di incontrarlo ancora – insieme agli altri colleghi della FAF – nello spazio immateriale ma “sostanziale” del confronto, della condivisione e della discussione sull’architettura, sui suoi strumenti empirici e/o formalizzati di progettazione spazio_materica.

23 Dicembre 2005, 11:31

Giorgio Giallocosta

Questo dibattito tratta di “architettura”, e tratta anche di “stili tecnologici”.
Sottende però, a me pare, quella vecchia dicotomia fra “arte” e “scienza” (o fra “arte” e “tecnica”), taluni (o talora) declinando la seconda nei termini “sostanzialmente” strumentali di “esplicitazione” della prima (o di quel “pensiero creativo” che, in architettura, sostanzia la prima), tal altri (o in altri “passaggi”) ravvisando nella seconda orizzonti più ampi (processuali, procedurali, di potenzialità trasformative, ecc.) al punto da “connotare” la prima. Permane peraltro il rischio di una perdurante sussistenza di impostazioni sostanzialmente strutturaliste (e/o “riduzioniste”, nell’accezione propria dei più significativi retaggi di cui gli approdi contemporanei della teoria dei sistemi predicano la rimozione), da superarsi – ritengo – mediante l’assunzione in senso dialettico, anzichè dicotomico, delle diverse accezioni di “progetto di architettura” (e dei molteplici caratteri, e “attualizzazioni”, inter-disciplinali e trans-disciplinari ivi coinvolti).
Di questo tratterò brevemente, tralasciando per motivi di tempo altre questioni fra quanto fin qui emerso, che pure ritengo importanti e suscettibili di ulteriori approfondimenti (marketing e informazione, ricerca applicata, ecc.).
Cos’è “architettura” dunque, cos’è “arte” o come evolve nell’era moderna o tardo-moderna (non amo assumere concezioni “ambigue” di “post”-modernità e simili), cos’è “tecnica”, o meglio, cos’è “stile tecnologico”? Nel primo caso, riprenderò alcune citazioni già utilizzate da Valerio Di Battista per un suo recente intervento a un Seminario di Studi, condividendo con lo stesso la predilezione, anche per questi scopi, di una “vecchia” definizione di “architettura” coniata da W. Morris nel 1881.
Per Milizia, per esempio, l’architettura "(…) si può dire gemella dell’agricoltura; poichè alla fame, per cui gli uomini si sono dati all’agricoltura, va accoppiata la necessità di ricovero, donde è sorta l’architettura (…)". Da Le Corbusier riprendo, fra le altre definizioni coniate, quella secondo cui "(…) l’architecture est le jeu savant, correct et magnifique des volumes assemblès sous le soleil (…)". Morris infine, omettendone ulteriori (Viollet-Le-Duc, Benedetto Croce, Zevi, ecc.), fornisce una definizione di architettura come "(…) l’insieme delle modifiche e alterazioni introdotte sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane, eccettuato solo il puro deserto (…)". Quest’ultima definizione – anche qui concordo con Di Battista – sembra compendiare tutte le precedenti, e le ulteriori possibili, restituendo accezioni unitarie (e spero condivise) di “architettura”, soprattutto ove si collochi la sfera delle “necessità umane” in senso non riduttivo di “bisogno materiale”, ma anche di comunicazione, “rappresentazione”, poiesi, e altro ancora.
E’ appena il caso di rimarcare, in secondo luogo, la “distruzione dell’aura” dell’opera d’arte a seguito della sua riproducibilità tecnica, già “segnalata” da Benjamin nel suo celebre saggio. Nello stesso, peraltro, si sottolinea il carattere “particolare” dell’architettura come opera d’arte, di cui "(…) si fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione".
Secondo Henri Focillon (citato da Cino Zucchi in un lavoro di prossima pubblicazione), la tecnica "(…) è effettivamente fatta d’accrescimenti e di distruzioni ed (…) è possibile, in ugual distanza dalla sintassi e dalla metafisica, assimilarla ad una fisiologia" (in “La vie des formes”). Nella prima metà degli anni Ottanta, in due articoli messi a punto con chi scrive, Mauro Maccolini intendeva per “stile tecnologico” il "(…) complesso di attività operative basato su di una precisa scelta tecnologica per la realizzazione dell’organismo edilizio. Esso pone i propri vincoli alla progettazione, condiziona l’organizzazione del cantiere e l’uso di componenti e materiali, orienta verso la scelta delle attrezzature, pone delle regole convenzionali fra gli operatori". Anche Alfonso Acocella tratta di “stile tecnologico” e operando talune accentuazioni, ma su questo tornerò più avanti.

Nel dibattito che qui si sta sviluppando, giustamente si sottolinea come i più recenti approdi della filosofia della scienza – o, se si preferisce, di matematica, "(…) fisica, biologia e scienze informatiche (…)" – operino per un trasferimento al “mondo dell’architettura” di "(…) una serie di nuove conoscenze e suggestioni, accompagnate da inediti metodi di analisi e progettazione della realtà. Da questi campi conoscitivi, integrati in un’ottica multidisciplinare, si sviluppano innovativi concetti di dimensione, struttura geometrica, materia, forma e, soprattutto, emergono nuovi percorsi di percezione sensoriale". Non ancora invece, o “non sufficientemente” (?), si ravvisano analoghi percorsi negli usi dell’architettura, la prima della sua “duplice modalità fruitiva” (Benjamin). Anche in questo risiede, a mio modo di vedere, quel rischio di riduzionismo a cui precedentemente accennavo, e tanto più ne traspare l’importanza e la gravità laddove proprio i più recenti approdi della filosofia della scienza sottolineano il carattere di sostanziale inscindibilità dei diversi aspetti e “dimensioni” connotanti il novero delle molteplici fenomenologie di scenario (o di quanto in esso, “e di esso”, osservabile e interpretabile), e dunque sottolineano, fra l’altro, le significazioni strutturali di quelle sinergie che costantemente si producono: in architettura per esempio, “non solo” rappresentazione, o “non solo” comunicazione, o “non solo” uso, ecc., ma dinamiche interazioni che interessano il complesso pluridimensionale di quelle modifiche e alterazioni prodotte (e che si producono) "(…) sulla superficie terrestre in vista delle necessità umane (…)" (Morris). Sintomatico, a proposito di esigenze di razionalizzazione del progetto, è quanto per esempio giustamente sottolinea Schiaffonati (citato da Etta Esposito) circa necessità di implementazione, fra l’altro, di "(…) reti di interconnessione tra i diversi saperi" che indaghino dunque i diversi aspetti e dimensioni ivi sussistenti, “integrati”, e “connotanti” il primo (il progetto di architettura).
Nè operando quel "(…) ribaltamento della prospettiva di analisi" (Acocella), ossia a partire da ogni "(…) materia fondamentale della costruzione (che – nda …) come sappiamo – ha dato vita ad uno speciale orizzonte dell’architettura, ad uno Stile tecnologico di riferimento (nell’accezione che ne fornisce Alfonso – nda …)", può minimizzarsi ogni esigenza di obliterazione dei rischi di riduzionismo: la tecnica anzi, e la sua pervasività, impongono invece l’assunzione di quelle poderose mutazioni che per loro tramite (o per consensuale protagonismo) stanno addirittura interessando, anche in architettura (e “tragicamente” e “ineluttabilmente”, secondo alcuni), quei riferimenti fondativi della tradizione occidentale (Severino). Ogni materiale e ogni “stile tecnologico” (inteso nel senso prima esplicitato, ma anche nelle accentuazioni di Acocella) possiede proprie vocazioni e propensioni, da leggere, indagare e interpretare, e che (schematicamente) possono ascriversi a “proprie” qualità e caratteri intrinseci, ma anche, naturalmente, alle diverse sedimentazioni (fruitive, esperenziali, culturali, axiologiche, ecc.) a cui possano ricondursi: la valenza stereometrica delle murature portanti, la tradizionale “leggerezza” degli edifici in ferro e vetro, per esempio, ma anche (e per altri “aspetti”, seppure rigorosamente interconnessi), la coerenza fra funzioni attese e “artifici” espressi mediante l’impiego di determinati materiali, tecniche, prodotti, ecc. E’ evidente come nei processi “tecnici” (o anche “poietici”) di manipolazione delle componenti “materiche”, e dunque nei disvelamenti delle ulteriori (e possibili) “vocazioni” dei “materiali”, possano prodursi “ibridazioni” qualora ne risultino esiti non sufficientemente forieri di sviluppi “nel complesso” dei molteplici aspetti e dimensioni connotanti “l’insieme” delle “modalità fruitive dell’architettura” (uso, percezioni culturali, sensoriali, axiologiche, ecc.), e possano invece prodursi “innovazioni” qualora gli esiti includano evoluzioni nelle possibilità di impiego e nelle (fin qui) sedimentate modalità “ricettive” e “inter-operative” dei fruitori, e peraltro coerentemente con i più significativi approdi della filosofia della scienza, della fisica teorica, ecc. (Heisenberg, Prigogine, e altri). Così per esempio, come può ormai considerarsi maturo quel processo evolutivo attraverso il quale la classica sedimentazione dell’ “hic et nunc” dell’opera d’arte ne accoglie “addirittura” la sua “riproducibilità tecnica”, e come similmente possono chiaramente evidenziarsi quei poderosi sviluppi introdotti dal Movimento Moderno nei “modi di fruizione” dell’architettura (“finalmente” declinandola “in senso industriale”), ogni ipotesi di costante modificazione nelle modalità di manipolazione della materia, mirata a disvelarne e “rappresentarne” nuove “eventuali” potenzialità, produce innovazione se vi è armonicamente coinvolta la molteplicità delle differenti connotazioni e sedimentazioni circa l’opera che si realizza, e si attuano loro analoghe evoluzioni: in tal senso dunque, ogni manipolazione di quello “stile tecnologico” basato su opzioni di impiego di materiali lapidei (per utilizzare un’esemplificazione giustamente “cara” ad Alfonso) opera in senso non riduzionista, e assume dunque potenzialità realmente innovative, solo se è in grado, insieme, di produrre riverberazioni virtuose che da intenti “rappresentativi”, o “comunicativi”, o altro, si propaghino in termini di evoluzioni “culturali”, “axiologiche”, di “modi d’uso”, ecc.
Emerge in tal senso, nè si scorgono escamotage di possibile rimozione, la necessità di approcci decisamente inter-disciplinari e trans-disciplinari anche in quelle opzioni che per esempio tendano, come afferma Alfonso, da uno "(…) ‘stato accumulativo’ (…)" dello “stile litico” a quel "(…) continuo aggiornamento come una sorta di palinsesto in perenne riscrittura" (o “scrittura”?). Se ne privilegino pure aspetti o ambiti particolari di ricerca e sperimentazione (ottimizzazioni produttive, mix tecnologici, texture, o quant’altro), si ottimizzi anzi quell’ “ordine nuovo della materia” che realizza l’uno “dei due regni” di cui parla Focillon (nel passaggio citato da Acocella), garantendo tuttavia (“per quanto possibile”, ma con atteggiamento scevro da inopportune deleghe fattuali), idonee misure di gestione e controllo circa gli effetti sulle molteplici connotazioni dell’architettura.

Non intendo muovere con queste note particolari critiche ad alcuno, quanto piuttosto rimarcare la natura di quei rischi spesso insiti, a mio parere, in ipotesi o esiti ascrivibili ad accezioni non esaustive (ancorchè “legittime”) di architettura. Quest’ultima implica infatti poiesi, sedimentazione storica, ecc., “e anche scienza”.
"Non bisogna chiamare ‘Scienza’ che l’ ‘insieme delle ricette che riescono sempre’. Tutto il resto è letteratura" (Paul Valèry in “Tel Quel”, citato da C. Zucchi).

Buone Feste a tutti, con l’Augurio di un 2006 fervido di dibattiti, poiesi, e “innovazione”!
Giorgio Giallocosta

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