27 Ottobre 2007
Opere di Architettura
Memorial di Kampor, isola di Rab (1953)
di Edvard Ravnikar*
Lo spazio coperto dell’arcosolio (foto: Pietro Savorelli)
Il memorial sorge in una zona pianeggiante, una sella tra due specchi di mare e tra due montagne verdeggianti; l’isola Rab (Arbe) è una delle località più forestate dell’adriatico: allori, cipressi, fichi d’India, pioppi, rosmarini, pini, agavi centenarie e oltre trecento sorgenti d’acqua. L’orizzontalità del paesaggio senza tempo scende verso il mare, interrotta talvolta da antiche mura a secco in pietra, solide e ben conservate tra ulivi e lecci in una retorica, bucolica, immagine mediterranea.
Un recinto in pietra d’Istria bianca segue il leggero pendio della pianura, avvolge come una linea continua il monumento e lo racchiude geometricamente.
Nel progetto di Edvard Ravnikar il tema del recinto è declinato come segno a dimensione territoriale e filtra la relazione tra la memoria ed il paesaggio.
Il recinto monumentale. Sulla destra l’arcosolio
All’esterno, oltre il confine tracciato dal progettista, la natura appare immutata e riproduce le murature di antiche sostruzioni, a perpetuare l’immagine arcaica dell’area sacra con l’altare e il recinto agreste per gli armenti. All’interno prevale la citazione delle rovine architettoniche: nel rievocare la suggestione di siti archeologici mediterranei, l’opera dissimula la sua contemporaneità. Il tema dello scavo archeologico, delle tracce urbane di una città dissepolta si rivela nell’uso della muratura bassa in successione prospettica. Finzioni architettoniche rimandano agli elementi costruttivi: cardini e cornici, di un’antichità evocata per rinforzare il senso della costruzione quale limite di separazione tra interno ed esterno, tra il tempo “fermo” del memoriale e quello delle stagioni che “scorre” nella natura circostante.
L’ingresso dell’area sacra
Un vestibolo quadrilatero introduce ad una visione complessiva del monumento, come la cella del tempio, circondata da spesse mura di pietra interrotte. La pavimentazione in pietra d’Istria è costretta in ampi riquadri: guidane quadrangolari, lastricate a correre, delimitano campiture dalla geometria negletta, organizzate secondo la casualità di frammenti ritrovati. Dal pavimento salgono, collocati secondo gli assi prospettici, colonne mozzate, cippi ed altari; sono reliquie progettate, ex-voto architettonici immolati alla memoria e al progetto.
Allievo di Josef Plecnick, Edvard Ravnikar da lui apprende il senso della continuità storica depositato nella monumentalità. Malgrado il percorso di affrancamento dal linguaggio del maestro lo porti a collaborare con Le Corbusier, nella sua opera permane il radicamento all’ideale classico, riconoscibile quando afferma: “ci piace dimenticare che non esistono altre regole in architettura che quelle classiche, anche quando vogliamo essere rivoluzionari”. 1
Il percorso, pavimentato in pietra d’istria con una disposizione a spina di pesce intorno ad una canaletta centrale, segue il dislivello del suolo, interrotto da brevi rampe di scale. Ai lati, sull’erba sono posti segmenti di pietra bianca, una pietra per ogni defunto. Le pietre emergono orizzontalmente con l’aumentare della pendenza del suolo, prima cordoli, poi gradoni e infine blocchi prismatici: affiancati compongono nella terra il disegno del dolore e della pietà. Oltre i sepolcri, da una parte, il lastricato luminoso degli ossari, contrapposto all’introvertito arcosolio, l’unico ambiente senza relazione con l’orizzonte.
Il percorso centrale del Memorial
Il sentiero s’interrompe quando incontra il recinto: la deambulazione si arresta all’ostacolo, ma il percorso prosegue idealmente all’orizzonte, e solo l’acqua può scivolare oltre e proseguire in linea retta verso il mare, verso l’origine del mito classico.
Dalla mittel-europa al Mediterraneo.
Alessandro Vicari
Note
*Il saggio è tratto dal volume di Alfonso Acocella, L’architettura di pietra, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, pp. 624.
1 La citazione è riportata in Isotta Cortesi: “Edvard Ravnikar. Memorial di Kampor, isola di Rab,”, Area n.56, 2001, pp.6-17.